1970, l’anno delle regioni

Fu l’anno dei tre governi. Nella Prima Repubblica accadeva, il sistema era collaudato, non faceva scandalo. Fu anche l’anno delle conquiste civili, lo Statuto dei lavoratori e il divorzio. Svolte destinate a segnare un’epoca. Ma quel 1970, mezzo secolo fa, viene ricordato principalmente come l’anno di nascita delle regioni. L’inizio del dissesto dei conti pubblici, secondo i detrattori che si rifanno a una profezia pronunciata dall’allora leader repubblicano Ugo La Malfa. Il principio dell’autodifesa contro le inefficienze dello Stato centrale, invece, per i sostenitori di un autonomismo sempre più spinto.

Cinquant’anni comunque e mostrarli tutti. Era il 7 e l’8 giugno 1970 quando per la prima volta nella storia repubblicana si votò per eleggere i consigli regionali delle 15 regioni a statuto ordinario. Il popolo degli elettori affollò i seggi; votarono più di 28 milioni e mezzo di italiani, pari al 92,4 per cento degli aventi diritto. Con il picco del 96,6 per cento in Emilia Romagna.

Dall’entusiasmo e dalle speranze di allora al disincanto e agli interrogativi del tempo presente. L’epidemia di coronavirus ha fatto esplodere tensioni covate da oltre un ventennio tra le varie aree del Paese. Sono sorti conflitti di competenza e di autorità tra Roma e le altre capitali regionali in un crescendo di contrasti. Ma sono emerse anche le spiccate capacità di alcuni presidenti di Regione: al nord il leghista Luca Zaia, al sud il dem Vincenzo De Luca, per esempio. E, a sorpresa, si è svelato un Mezzogiorno capovolto, meglio organizzato e disciplinato di quanto i luoghi comuni hanno mistificato negli anni.

In quel lontano 1970 si arrivò al varo delle Regioni dopo un lungo travaglio politico. L’ente regionale era previsto in Costituzione già dal 1948. Ci vollero 22 anni perché prendesse forma. I comunisti insistevano per averle perché speravano di allargare la sfera di influenza del socialismo municipale nei territori a loro più fedeli. I democristiani, inizialmente favorevoli, ne rallentarono la nascita temendo appunto il contagio comunista. Poi acconsentirono quando intravidero nel sistema delle regioni uno sbocco alle ambizioni di carriera politica e di esercizio del potere per il notabilato locale.

Al voto regionale si arrivò in un clima di grandi sommovimenti sociali. L’autunno caldo del 1969 aveva portato in dote al movimento operaio lo Statuto dei lavoratori, il cui valore è stato ancora ribadito nei giorni scorsi dal presidente Sergio Mattarella: «Del lavoro, della sua dignità e qualità dipende il futuro del Paese e dell’Europa», ha detto. Cinquant’anni fa al Quirinale sedeva Giuseppe Saragat, esponente del PSDI, un passato di antifascista. La campagna elettorale si svolse con Mariano Rumor presidente del consiglio, un democristiano alla guida di un governo di centro-sinistra, il Rumor III che durerà appena 131 giorni, dal 28 marzo al 6 agosto. Era stato preceduto dal Rumor II, un monocolore Dc. Anche allora le maggioranze mutavano ma il capo del governo restava sulla sua poltrona. Dopo il voto Rumor venne sostituito da un altro esecutivo di centro-sinistra guidato da un altro democristiano, Emilio Colombo. Mentre vicepresidente del consiglio sia con l’uno che con l’altro fu il socialista Francesco De Martino.

I risultati elettorali, eccoli. Primo partito, come sempre in quegli anni, è la Democrazia Cristiana con 10 milioni di voti pari al 37,9 per cento; con un arretramento di poco più di un punto rispetto alle politiche di due anni prima (39,1%). Avanza il Partito Comunista Italiano: sette milioni e mezzo di voti equivalenti al 27,8 per cento, quasi un punto in più rispetto alle elezioni del 1968 (26,9%). Erano anni, quelli della Prima Repubblica, in cui gli spostamenti di uno-due punti percentuali rappresentavano un sommovimento. Terzo il PSI con poco meno di due milioni di voti pari al 7 per cento: due anni prima si era presentato unificato al PSDI mentre le regionali del 1970 sancirono la definitiva rottura del mondo socialista. All’estrema destra il MSI con 1 milione 400mila voti e il 5,2 per cento è in crescita sulle politiche (4,4%). In questa tornata compare per l’ultima volta un partito monarchico, il PDIUM, a capo del quale vi erano un nostalgico del re, Alfredo Covelli, e un Berlusconi ante-litteram, cioè Achille Lauro, ricco armatore ed editore napoletano (dal quale il chiassoso rapper del festival di Sanremo ha solo preso in prestito il nome): i monarchici con 195 mila voti in tutto (0,72 per cento) riescono a portare a casa due consiglieri regionali, uno nel Lazio e l’altro in Campania. Miracolo della legge elettorale proporzionale che era uguale in tutte le regioni al voto, a differenza di quanto poi è accaduto. Completano il quadro di quella tornata PSDI, PLI, PSIUP e PRI.

La cartina geografica d’Italia si tinge di rosso in Emilia-Romagna (dove il PCI tocca la vetta del 44 per cento), Toscana e Umbria. E resterà così per il mezzo secolo successivo: solo l’Umbria ha cambiato colore per la prima volta pochi mesi fa, nell’ottobre 2019. Nelle altre dodici regioni domina la Dc con un record in Veneto (51,9 per cento). In Liguria l’unico testa a testa con lo Scudocrociato vittorioso per diecimila voti: DC 32,1 per cento, PCI 31,3. Nel Mezzogiorno la Democrazia Cristiana si conferma partito popolare. In Puglia raccoglie il 41,2 per cento, in Campania il 39,6. I comunisti sono molto distanziati, rispettivamente con il 26,3 e il 21,8. Dietro al Partito socialista (sopra il 10), si piazza al quarto posto il MSI sfiorando il 9 per cento in tutte e due le regioni. «È la storia di una piccola Bisanzio, dominata da intrighi di corridoio e da veleni di una diffusa mediocrità morale» il feroce giudizio sui primi anni di attività della Regione Campania del giornalista e scrittore Antonio Ghirelli.

In un Paese in bilico tra rinnovamento e conservazione il voto fu interpretato dalla dirigenza comunista come la conferma della «strategia delle riforme come strategia delle alleanze» con i nuovi ceti emergenti, anticipatrice dei successi della metà degli anni Settanta. Per i leader DC Rumor e Forlani si trattava invece di un sostegno alla politica del governo di centro-sinistra. Con il sistema proporzionale stabilire chi vince e chi perde è sempre stato un esercizio cabalistico.

Ma appena dieci giorni dopo, il 17 giugno, è netto il risultato della vittoria. Gli italiani si riuniscono davanti alle tv in bianco e nero: nello stadio Azteca di Città del Messico si gioca Italia-Germania, semifinale della coppa del mondo. Anzi, della Coppa Rimet, come si chiamava allora. È la sera del mitico 4 a 3. «Una vera squisitezza» scrisse Gianni Brera nel consacrare «i dioscuri Mazzola e Rivera» (sul quotidiano Il Giorno il 18 giugno 1970). Che epico batticuore. Da nord a sud si urlava all’impazzata forza Italia. Forza Italia, sì. Silvio Berlusconi, un illustre sconosciuto. Viste e riviste quelle immagini, quante volte? A ripensarci, mezzo secolo dopo, vengono ancora le lacrime agli occhi. Nessuna nostalgia invece ha senso per quel modo di far politica, espressione di un’Italia e di un mondo che non esistono più.

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