Mamma mia carissima…

Beppe Patrono (1918-2006). Nasce a Brindisi, studia alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ma interrompe gli studi accademici a causa della guerra.

A Roma entra a far parte del Partito d’Azione e stringe legami con molti oppositori del regime provenienti dall’area liberale e azionista, quali Ferruccio Parri, Riccardo Bauer, Vittorio Gabrieli, Ernesto Rossi. Dopo il 25 aprile 1945 resta a Roma per nove mesi prima di tornare a Brindisi.

Socialista eretico, laico irriducibile. Una figura limpida e coerente di antifascista e di laico sempre intransigente che ogni volta ritroviamo «da una parte sola».

Beppe Patrono, con il patrimonio immateriale, davvero immenso, che ha lasciato alla comunità favorirà studi e ricerche che saranno utilissime per le giovani generazioni che prima di esserci devono imparare e conoscere.

In occasione dell’Anniversario della Liberazione pubblichiamo la lettera, che fa parte dell’archivio Patrono presso la Fondazione Giuseppe Di Vagno, che Patrono scrisse alla madre nel 1944.

L’intensità del dolore e l’asciuttezza della descrizione delle atrocità subite siano da monito per tutte e tutti.

 


Roma, 7 giugno 1944

Mamma mia carissima,

ci sembra d’esserci svegliati da un incubo: l’inferno stesso non deve essere peggiore di quel che noi abbiamo visto e sofferto.

Vorrei trovarmi vicino a voi per gridarvi tutti i ricordi delle cose orribili, atroci di cui siamo stati testimoni.

Era quanto di più spaventoso si potesse immaginare: la vita ridotta ad un nulla, sospesa ad un filo il terrore ad ogni più piccolo spirar di vento, la violenza, le torture fisiche e morali, la morte: la caccia all’uomo, gli arresti, le fucilazioni degli ostaggi e dei prigionieri politici, i nostri migliori amici scomparsi, vuoti incolmabili. Allora abbiamo sentito che tutto quello che avevamo imparato ad amare in tanti anni di oppressione (e tu lo sai!), la libertà, una vita degna di uomini, riscattata dalla miseria e dalla schiavitù, era ciò che solamente poteva aver valore, fra tante cose che non ne avevano più alcuno. Berto Rolandi, a cui affido la presente lettera, ti dirà il resto a voce.

Egli ci precede; io e gli amici che sono ancora qui lo seguiremo un poco alla volta. Ormai ci sentiamo legati per tutta la vita ad un lavoro politico che era già il nostro, ma che ha ricevuto ora una tragica consacrazione con la morte di tanti migliori di noi.

Spero che mi capirai.

Verrò appena mi sarà possibile.

Se tu sapessi l’ansia che mi divora di riabbracciarti, di riposare tra le tue braccia, di piangere anche un poco sul mio dolore, sul tuo dolore, sul dolore di tutti!

Voi avete avuto la fortuna che tanta angoscia vi venisse risparmiata, ma guai se al nostro ritorno noi dovessimo trovarvi tiepidi, indifferenti: sorgerebbe un’indignazione capace di spezzare i vincoli più stretti.

Io sono sempre stato torturato dal pensiero che tu forse mi pensavi morto: non avevi i motivi di ben sperare che io invece possedevo nei tuoi riguardi.

Ma ad un certo momento qui è stato un unico dolore e un’unica angoscia e tutto è rientrato, è stato assorbito nell’orrore presente. Io mi esprimo forse con termini vaghi: ma le parole, vaghe, sono legate ad avvenimenti di cui conserverò il ricordo per tutta la vita.

Ti basti sapere che sto bene e che spero di riabbracciarti presto.

A tutti coloro che mi vogliono bene ricordami, e ricorda l’opera comune, gli ideali comuni a quelli che con noi operarono, che ebbero gli stessi ideali. Che moltiplichino le energie, che diano anche la vita, se occorre, ma che quelli si realizzino.

Ti bacia il tuo Beppi

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