Per ricordare Luciano Pellicani, dopo l’articolo di Gianvito Mastroleo, pubblichiamo una lettera tratta dal libro Il Vangelo Socialista. Rinnovare la cultura del socialismo italiano, di Bettino Craxi, Virgilio Dagnino e Luciano Pellicani, a cura di Giovanni Scirocco (Nino Aragno Editore, Torino 2018) e una testimonianza di Lucio Leante.
Il Vangelo socialista
Roma, 10 novembre 1975
Caro Dagnino,
ho terminato proprio ora di leggere la tua bellissima lettera. Potrebbe essere lo spunto per un dibattito su Pietre intorno ai grandi problemi del socialismo, che poi sono i grandi problemi dell’umanità (almeno di quella occidentale e occidentalizzata). Le domande che poni sono molte e tutte, prima o poi, le ho poste anch’io ad altri compagni, simpatizzanti o militanti attivi. E le ho poste anche a me stesso e continuo a pormele e a cercare una risposta che non sia una chiusura. Ti confesso però che più vado avanti nei miei studi, più mi convinco che nell’idea socialista ottocentesca c’è un vizio di fondo che è poi la causa stessa della sua enorme capacità d’attrazione. È l’idea di salvezza, un’idea bellissima ma che, puntualmente, produce sette di gnostici (anarchici) e burocrazie sacrali (i comunisti al potere). Se le cose stanno così – su questo punto la storia del cristianesimo è davvero istruttiva – la cosa più razionale è abbandonare l’idea stessa di salvezza, come hanno fatto Monod e Gilas [1].
Il primo ha teorizzato l’etica della conoscenza, che altro non è che la filosofia del neo-illuminismo riformatore [2]; il secondo ha abbracciato la filosofia del migliorismo, che si contrappone a quella del perfettismo gnostico. Io mi muovo nella stessa linea di discorso, che poi è quella di Bernstein [3], Russell [4], Rosselli [5] (le sue pagine sul messianesimo marxiano mi sembrano ancora oggi attualissime, come attuale è, checché se ne dica, l’alternativa liberal-socialista, da lui generosamente proposta). Ho avuto anch’io la mia stagione gnostico-rivoluzionaria (che cosa intendo con questi termini l’ho spiegato diffusamente nei Rivoluzionari di professione). Ma poi ho incominciato a chiedermi perché i conti non tornavano mai, cioè perché la rivoluzione non dava i frutti che pure prometteva. Ho impiegato più di dieci anni di studi, di ricerche, di meditazioni per trovare una risposta a questo quesito fondamentale.
Grosso modo è la risposta che hanno trovato autonomamente Vittorio Mathieu (La speranza nella rivoluzione [6], che ti consiglio vivamente di leggere) e Domenico Settembrini (Socialismo e rivoluzione, che tu conosci assai bene). La mia posizione politico-ideologica però si diversifica da quella di Settembrini poiché lui ha ormai cessato di porsi gli interrogativi che tu mi poni (e che io mi pongo continuamente) e si è identificato con l’ala destra del neo-illuminismo (liberalismo in senso classico e stretto), io invece credo che l’istanza socialista, purché subordinata a quella scientifica e liberale, ha una sua validità e un futuro anche (sto preparando un libro sull’alternativa socialista che inizierò a scrivere nel 1977). Però su questo punto non ci dobbiamo fare soverchie illusioni, né commettere gli stessi errori. Dobbiamo vedere in faccia la realtà (come gli gnostici non sanno né possono fare) per progredire nella direzione della eguaglianza e della democrazia e della libertà individuale. Per fare ciò non c’è che un metodo: la discussione critica (nel senso di Popper), il rifiuto della proiezione animistica (Monod), la rinuncia all’idea di società perfetta (Gilas), lo scetticismo metodico (Russell). Come vedi siamo agli antipodi della mentalità gnostica (su questo punto non posso dilungarmi molto: mi limito a rinviare ai miei Rivoluzionari di professione).
Ora, se effettivamente accettiamo tutto questo – e tu mi pare che lo fai – il marxismo, il leninismo, l’anarchismo ecc. appaiono in una luce tutt’affatto diversa (da quella che la propaganda e l’azione di risocializzazione comunista ci hanno fatto credere): sono gli ultimi avatars del messianesimo e, proprio perciò, non possono che sfociare nella teocrazia (proprio su “Pietre” ho letto con piacere una frase di Dostojevski sul socialismo quale cristianesimo rovesciato [7] ). E ora cercherò di rispondere ai tuoi specifici quesiti (cercherò, poiché qui, come altrove, ogni risposta non può non essere provvisoria).
Il problema della violenza. Io non sono affatto per la politica della non-violenza a tutti i costi. Tutt’altro. Certi diritti si conquistano con la spada in pugno. Contro il fascismo, per esempio, non c’era che un mezzo: la violenza, la lotta militare e paramilitare. Ma sono contro la violenza eretta a sistema, contro la violenza arbitraria, terroristica, sfrenata, cioè sono contro la violenza come essa è stata teorizzata da Marx, Engels, Lenin, Trotsky ecc. Naturalmente non credo che si possa dire che la violenza rivoluzionaria sia stata introdotta nel movimento operaio da Marx ed Engels. Questo perché il ricorso alla violenza è stato teorizzato molto prima di Marx ed Engels. Penso soprattutto a Blanqui [8], ma soprattutto all’amoralismo dei movimenti chiliastici [9] del Medioevo, che predicavano il terrore per edificare il Regno di Dio in terra. I risultati li conosciamo: si comincia per teorizzare il terrore contro i nemici del popolo, ma poi lo si adopera soprattutto contro il popolo. Gli è che una cosa è la violenza spontanea e un’altra la violenza programmata come una tecnica terapeutica per sanare il corpo malato dell’umanità; una cosa è la violenza contro il dispotismo (che io approvo pienamente) e un’altra la violenza contro i regimi democratici basati sul consenso e sulla istituzionalizzazione di mezzi di lotta pacifici contro il sistema.
La questione dell’utopismo. Giustamente tu dici che il socialismo ha bisogno di una notevole carica utopistica. Io preciso che questa carica utopistica è stata assai funzionale nella fase pionieristica e aurorale del movimento operaio, ma ora rischia di alienare le masse da quelle istituzioni che sono la garanzia dei loro diritti. Con questo non voglio affatto dire che il socialismo debba liberarsi da ogni forma di utopismo, ma semplicemente che si deve sostituire all’utopismo chiliastico un utopismo realistico, basato su obbiettivi conseguibili, o comunque non troppo distanti dalle effettive possibilità inerenti allo stato di sviluppo della società. Per esempio: tutti i cittadini hanno il diritto di avere una cultura superiore, quindi dobbiamo spingere perché la società utilizzi le risorse che essa stessa produce in modo che a tutti sia fornita la possibilità di accedere all’università. Però è demagogico pretendere di fare ciò nel giro di pochi anni. Dobbiamo chiedere il massimo del possibile e qualcosa di più, ma non l’impossibile, cioè l’assoluto in terra. Su questo punto io ho coniato una formula: il socialismo deve passare dal messianesimo al pragmatismo senza perdere il suo slancio riformatore, ma abbandonando l’ideale perfettistico che non aiuta punto la società ad andare avanti, checché si sia detto su questo punto. Le società che hanno più progredito nella direzione dell’uguaglianza e della libertà sono quelle in cui il messianesimo non ha intralciato il lavoro riformatore dei socialisti pragmatici.
La Svezia è un esempio esemplare. Ugualmente esemplare mi pare l’Italia, ma in senso negativo. Il socialismo italiano è infantile, ottocentesco, ancora intriso di elementi chiliastici. Oggi si sta convertendo – così mi pare – al pragmatismo (su questo punto ho scritto un saggio dal titolo Verso il superamento del pluralismo polarizzato? che è apparso sul n. 3 della Rivista italiana di scienza politica nel 1974 e che ha suscitato già gli interventi di Sartori, Galli e Tarrow). Io spero che questa conversione della cultura politica socialista dall’ideologismo al pragmatismo proceda senza intoppi, poiché solo abbandonando la prospettiva messianica le forze di sinistra potranno prendere in mano la direzione del paese e sottrarla alle forze conservatrici e al malgoverno democristiano. Infine il marxismo.
Tu mi dici grosso modo questo: stiamo accorti a non buttare il bambino assieme all’acqua sporca. Il marxismo non è tutto da buttare. Tutt’altro. E accenni alle interpretazioni libertarie del pensiero di Marx. Qui il discorso sarebbe lungo assai. Prima di tutto non mi pare che testi alla mano una lettura libertaria del marxismo sia possibile. Se c’è una nota costante del discorso di Marx, questa nota è la dittatura rivoluzionaria del proletariato (più precisamente della parte cosciente che è identificata con il partito). Ma ammettiamo pure che sia legittima una lettura libertaria del marxismo: che guadagno avremo fatto? Ci troveremmo fra le mani una dottrina «tutta fini e niente mezzi», cioè una dottrina politicamente inservibile. Quando il marxismo è realistico è autoritario, quando è libertario è irrealistico. Potresti rispondermi: usiamo il marxismo libertario come una idea regolativa. Sono pienamente d’accordo, ma mi sembra più logico fondare il socialismo sull’etica kantiana che su quella marxiana. Così fecero Bernstein, Cohen [10], Natorp [11] ecc. Più logico perché ci libereremmo dal vizio dialettico. La mentalità dialettica è mistica e antiscientifica. Su questo punto le critiche rivolte da Colletti [12] alla dialettica mi paiono decisive e conclusive. La scienza opera in base a princìpi antidialettici, come ci ha ricordato a più riprese il maggior epistemologo vivente (Popper). Il che è quanto dire che accetteremo dal marxismo solo ciò che è scientifico. Cosa del resto che la cultura occidentale ha già fatto da tempo. La sociologia marxiana ormai fa parte del patrimonio comune degli uomini moderni e soprattutto degli scienziati sociali, quale che sia il loro credo politico. Infatti oggi non si può far ricerca senza tener presente quello che ha scritto Marx. Ma questo vuol dire anche che il marxismo deve essere considerato allo stesso livello di tutte le altre dottrine, criticabile come tutte, utilizzabile come tutte.
Questa è la mia direzione di marcia. Con il che non mi illudo affatto di aver risposto esaurientemente alle tue domande, che sono le domande di un socialista italiano: infatti un socialista inglese troverebbe scolastiche e la tua lettera e la mia risposta. Segno non ultimo di quanto la cultura in cui viviamo sia ideologica, cioè a mezza strada fra la cultura teologica e la cultura secolarizzata (che coincide poi con la mentalità empirica, pragmatica e neo-illuminista). Ma, d’altra parte, dobbiamo pensare il socialismo in un linguaggio comprensibile agli italiani e ciò ci impone dissertazioni su questioni che i compagni inglesi o svedesi hanno superato da tempo.
Grazie per avere avuto la pazienza di leggermi fin qui e tanti cordiali saluti dal tuo Luciano Pellicani
[1] Milovan Gilas (1911-1995), politico comunista jugoslavo, a metà degli anni ’50 fu escluso da qualsiasi incarico pubblico e successivamente arrestato per le sue critiche al sistema contenute in opere come La nuova classe (Il Mulino, Bologna 1957).
[2] Cfr. Virgilio Dagnino, L’etica della conoscenza e l’ideale socialista, “Avanti!”, 26 giugno 1976.
[3] Eduard Bernstein (1850-1832), leader del SPD, nella sua opera Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie (Dietz, Stuttgart 1899; tr. it. I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Laterza, Bari 1968) pose le basi della critica revisionistica al marxismo.
[4] Bertrand Russell (1872-1970), filosofo inglese, critico del sistema sovietico in nome dei princìpi del socialismo liberale: cfr. Roads to freedom: socialism, anarchism and syndicalism (Allen&Unwin, London 1918, tr. it. Socialismo, anarchismo, sindacalismo, Longanesi, Milano 1949); The practice and theory of bolshevism (Allen&Unwin, London 1920, tr. it. Teoria e pratica del bolscevismo, Sugar, Milano 1963).
[5] Carlo Rosselli (1899-1937) in alcune pagine di Socialisme liberal (Librairie Valois, Paris 1930; tr. it. Edizioni U, Roma 1945) affrontò quelli che definì «i miei conti con il marxismo» affermando, tra l’altro, che «tra socialismo e marxismo non vi è parentela necessaria».
[6] Rizzoli, Milano 1972. Vittorio Mathieu (1923- ) ha insegnato Filosofia morale e Storia della filosofia nelle Università di Trieste e Torino. Tra i fondatori di Forza Italia, è stato presidente del Collegio dei probiviri del Popolo delle libertà.
[7] È anche questo un argomento che ritornerà nel Vangelo socialista: «Si può dire che la meta finale indicata dal comunismo è “un Regno di Dio senza Dio”, cioè la costruzione reale del regno millenario di pace e di giustizia illusoriamente promesso del messianesimo giudaicocristiano. Non è certo un caso, dunque, che Gramsci sia arrivato a definire il marxismo “la religione che ammazzerà il cristianesimo” realizzando le sue esaltanti promesse e facendo passare dalla potenza all’atto l’ideale della società perfetta» (sull’utilizzo di questa citazione gramsciana, tratta da un corsivo del 1916 dell’ “Avanti!”, ed. di Torino, cfr. le osservazioni critiche di Paolo Spriano, Ecco le fonti di Craxi, “Rinascita”, 1 settembre 1978, pp. 8-9).
[8] Louis-Auguste Blanqui (1805-1881), rivoluzionario francese, fondatore della Società degli amici del popolo (1831).
[9] O millenaristici, che predicavano l’avvento di una nuova era di pace e prosperità, grazie al trionfo delle forze del Bene su quelle del Male.
[10] Hermann Cohen (1842-1918), filosofo neokantiano tedesco, fondatore della scuola di Marburgo. Su di lui cfr. Gian Paolo Cammarota (a cura di), Unità della ragione e modi dell’esperienza. Hermann Cohen e il neokantismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010.
[11] Paul Gerhard Natorp (1854-1924), epistemologo e logico tedesco, cofondatore della scuola di Marburgo. Per il suo tentativo di coniugare filosofia kantiana e socialismo cfr. Sozial-Idealismus, neue Richtlinien sozialer Erziehung, Springer, Berlin 1922.
[12] Lucio Colletti (1924-2001), docente di filosofia teoretica all’Università di Roma, aveva studiato la questione della dialettica in Marx nel suo Il marxismo e Hegel, Laterza, Bari 1969. Nel 1974, sempre per Laterza, era stata pubblicata una sua Intervista politico-filosofico, dove riprendeva questi temi e metteva in discussione la propria adesione al marxismo.
Il socialismo etico, liberale e anticomunista di Luciano Pellicani
di Lucio Leante
«Amicus Plato, sed magis amica Veritas» – diceva spesso. Diceva anche spesso: «se anche l’amicizia se ne va, cosa ci resta?». Non sono mai riuscito a capire se Luciano Pellicani desse più importanza alla verità o all’amicizia. Erano le sue stelle polari: la verità (e l’onestà) nella scena pubblica e l’amicizia (e la lealtà) nella vita privata. Pellicani, scomparso il giorno del venerdì santo, era uno studioso molto serio, un professore universitario di Sociologia, noto e apprezzato più all’estero che in Italia. Ma era anche e soprattutto un socialista riformista e liberale animato da una fervente passione etica e civile che lo portava a dire e scrivere spesso verità scomode a molti e a subire l’ostracismo dei conformisti. La passione civile e la sua etica laica ne facevano anche un fervente liberale e democratico e, in quanto tale, un appassionato anti-totalitario e perciò anche un convinto e inflessibile anticomunista. Sarebbe fuorviante cercare di farne un santino di una grande sinistra, mitica entità politica e culturale unitaria. Nella sinistra portò la spada della critica brandita senza mezzi toni e non il balsamo di quella finta unità con cui i comunisti, organizzati come una coorte in guerra permanente, hanno sempre fregato i socialisti.
La mia è una testimonianza che riassume un numero copioso di conversazioni spesso tenute a tavola, dove Pellicani amava parlare di cultura e di politica.
Egli teorizzava l’esistenza di due sinistre inconciliabili ed agli antipodi sul punto cruciale delle libertà: una riformista e liberal-democratica ed una rivoluzionaria e illiberale, e tendenzialmente totalitaria. Quest’ultima – notava – si è incarnata nei massimalisti e nei comunisti che fecero la scissione di Livorno nel 1921: la considerava una vera sciagura storica e «una catastrofe per la sinistra e per l’Italia».
Considerava l’intera tradizione marxista-leninista come un corpo estraneo parassitario che si era innestato sul corpo vivo del movimento operaio e contadino e sul corpo del socialismo riformista e democratico otto-novecentesco, ad opera dei «rivoluzionari di professione». Questi intellettuali li considerava – piccoli e medi borghesi che dopo la caduta del senso religioso della storia credevano di aver trovato un nuovo senso (nel doppio senso anche di direzione) della storia, di cui pretendevano di conoscere le leggi di sviluppo e che riuscirono a fuorviare i lavoratori vendendo cieche speranze, un paradiso in terra, un «regno di Dio senza Dio».
Il Pci, da Gramsci a Togliatti a Berlinguer – secondo Pellicani- aveva incarnato quella tradizione ed il Psi ne era rimasto succube a lungo, complice la sua anima massimalista, la quale, con il biennio rosso 1919-20, non fu esente da responsabilità per l’avvento del fascismo in Italia. L’obbiettivo di Pellicani è stato sempre quello di espungere quella tradizione – leninista, massimalista e rivoluzionaria – dal corpo del riformismo socialista italiano. L’anticorpo non poteva che essere – secondo lui – una robusta iniezione di cultura liberale. Ed è quello che cercò di fare prima, durante e dopo la sua direzione di Mondoperaio, auspice e garante Bettino Craxi, dal 1985 al 1994 (e poi, dopo una sospensione delle pubblicazioni, nel 1998).
Anche dopo la caduta del comunismo internazionale nel 1989 e il cambiamento di nome del Partito comunista italiano, considerava tutti i partiti eredi del Pci, dal Pds al Pd, come affetti da forti germi di «superstizioso anticapitalismo» e di illiberalismo stalinista, che si è manifestava con la loro tendenza alla demonizzazione (anche con uso politico del potere giudiziario) dell’avversario politico: contro Craxi, ma anche contro altri avversari, prima e dopo Craxi. Attribuiva la persistenza di quelle pulsioni al fatto che i post-comunisti non avevano mai voluto fare i conti, dopo il 1989, con la loro storia e con la loro ideologia, il marxismo, il leninismo, il gramscismo ed il togliattismo. Da questi germi egli, con Craxi, voleva emancipare la cultura e la pratica politica del Psi. Considerava imperdonabile e denso di conseguenze negative il fatto che i post-comunisti non avessero mai voluto fare apertamente i conti con i fantasmi del loro passato e con i circa 80 milioni di cadaveri che la loro utopia totalitaria aveva provocato nel ’900 insanguinando l’intero XX secolo.
Rimproverava a Craxi, consigliato da Gianni De Michelis, l’errore politico di non avere, come pure avrebbe potuto, posto il veto nei primi anni ’90 al prematuro ingresso del Pds nell’Internazionale socialista. Si doveva, invece, esigere – diceva Pellicani – un processo di aperta autocritica e di purificazione da parte dei post-comunisti italiani per le loro complicità e connivenze con il totalitarismo sovietico da Lenin (e non solo da Stalin) in poi. Craxi – notava Pellicani – non si oppose all’amnistia che di fatto cancellava i reati connessi ai finanziamenti sovietici al Pci fino al 1991. Risultato fu che in Italia avvenne il «paradosso del 1996», quando il Pds – dopo che i suoi dirigenti erano passati immeritatamente indenni da quell’operazione giudiziaria, ma anche politica, che fu Mani pulite – fu l’unico partito ex comunista nel mondo democratico che, anziché pagare dazio ed entrare in crisi, fu premiato con un inopinato ingresso al potere di governo in Italia e «senza alcuna autocritica».
«Non vollero mai ammettere che a Livorno nel 1921 avevano avuto ragione i riformisti di Filippo Turati e non i comunisti di Antonio Gramsci. La storia ha dato loro torto e il paradosso italiano è che ora loro sono andati al governo e il Psi è stato distrutto».
Craxi – notava Pellicani della sua generosità nei confronti dei post-comunisti – fu da loro ripagato con la loro attiva promozione della campagna di demonizzazione mediatico giudiziaria ai suoi danni che lo costrinse all’auto-esilio. Ne fu mal ripagato soprattutto quando i post-comunisti nel 1998-99 (governo D’Alema) rifiutarono di aderire alla richiesta dei familiari di Craxi di un salvacondotto perché il leader socialista potesse curarsi e morire in Italia. «Sarà trattato come un qualsiasi latitante» – dissero, condannandolo così ad una desolata morte all’estero, in Tunisia.
«Nella storia i comunisti quando arrivano al potere, la prima cosa che fanno è distruggere i socialisti» – notava spesso Pellicani, snocciolando nomi, date, paesi e circostanze con la precisione di un orologiaio.
Pellicani, per questa sua passione civile iconoclasta e controcorrente, e, in sostanza, per la sua battaglia aperta contro l’egemonia comunista e para-comunista sulla cultura italiana alta e medio-bassa, una lotta cioè ai nemici della società aperta occidentale, fu sempre un intellettuale scomodo e inviso a molti. Su di lui l’establishment culturale italiano, dominato da intellettuali vicini alla tradizione comunista, ha sempre cercato di stendere un velo di silenzio spesso, ma non sempre, riuscendovi.
Manifestò in qualche occasione – anche durante la sua direzione di Mondoperaio – spesso la sua autonomia intellettuale anche dal Psi.
Ricordo per esempio un suo editoriale del 1986 su Mondoperaio, sostenuto da quasi tutto il comitato di redazione, nettamente contrario alla scelta del Psi craxiano, auspice Claudio Martelli, di votare si allo (sciaguratissimo) referendum che consentì lo smantellamento delle centrali nucleari in Italia. Avevamo ragione noi mentre il Psi aveva torto. E Pellicani lo scrisse a chiare lettere nel suo editoriale, (senza subire d’altra parte alcuna ritorsione dal Partito).
Negli anni successivi a Mani Pulite, quando non era più direttore di Mondoperaio, esprimeva apertamente la sua delusione per il gruppo dirigente craxiano che – diceva – «aveva affogato nella corruzione le buone idee del riformismo e del socialismo autonomista e liberale». Ma non volle mai né aderire ad uno dei partiti post-comunisti, come avevano fatto alcuni socialisti né avvicinarsi a Forza Italia, come avevano fatto altri, ma diceva di considerarsi pur sempre un «uomo della sinistra».
Il 3 marzo del 2002 durante una manifestazione dell’Ulivo in Piazza del Popolo a Roma, unico socialista tra gli oratori, prese la parola per criticare radicalmente la linea politica della sinistra di allora accusandola di essersi appiattita sulla demonizzazione di Berlusconi e sul giustizialismo dei girotondini e dei dipietristi. Sapeva in anticipo che sarebbe stato fischiato e tuttavia espresse con molto coraggio quei giudizi. E infatti fu sonoramente fischiato dalla folla giustizialista.
Credo che i suoi giudizi fossero, come avveniva spesso, tanto etici, quanto politici. Considerava, infatti l’etica, alla stregua di un limite invalicabile anche per la categoria dell’utile e dell’opportuno, in cui consiste la politica. Era un machiavelliano, non un banale machiavellico.
In gennaio scorso ci vedemmo quasi ogni giorno anche perché aveva cominciato a non star bene. Si parlava di tutto tranne che della politica politicante dei giorni nostri (che annoiava tanto lui quanto me) e raramente dell’attualità. Si interessava molto del cinema e della sua storia. Più di una volta mi disse: «Uno dei grandi misteri della storia del cinema è come mai Hollywood abbia fatto migliaia di film sul nazismo, ma pochissimi sul totalitarismo sovietico e nessuno sul gulag. É incredibile e inspiegabile». Una storia su cui mi diceva che avrebbe voluto che fosse prodotto un film era quella della grande amicizia, durata tutta la vita, tra il pugile americano nero Joe Louis ed il suo rivale tedesco Max Schmeling che in un primo incontro vinse con lui per knock out e poi invece perse. Il regime nazista avrebbe voluto ergere Schmeling a emblema della superiorità della razza ariana e invece era solo una bravissima persona che mantenne con Louis un’amicizia lunga ed affettuosa e andò in soccorso dell’amico Louis quando questi cadde in miseria ed era anziano e malato.
Pellicani, tifosissimo del Milan, era anche un appassionato e un vero esperto di calcio. Passava i fine settimana incollato al televisore per vedere le partite. Anche del calcio conosceva la storia e raccontava aneddoti curiosi. Come quello, ai tempi del grande Real Madrid degli anni ’60, di Kopa e Di Stefano. Kopa, dopo che Di Stefano per due volte aveva preso la palla a metà campo e aveva fatto goal tutto da solo, gli disse: «amico non puoi ridicolizzare questo gioco! Noi col football ci guadagniamo il pane!».
Un’altra passione che Pellicani aveva in comune con me era la scienza. Parlavamo spesso di questioni della fisica e della cosmologia contemporanee. Era molto incuriosito dal fisico inglese Roger Penrose e dal suo «platonismo matematico», che è un po’ troppo complicato da spiegare qui. Luciano spesso mi diceva: «Avrei dovuto forse fare il fisico. La fisica e la matematica sono così precise e stringate. In poche paginette di formule e con poche parole Albert Einstein scrisse la teoria della relatività, una vera rivoluzione, altro che quella dei giacobini rossi e neri». Così lui chiamava rispettivamente i comunisti e i nazisti.