Un’immagine lunare si presenta al viaggiatore che da nord attraversa il Tavoliere per recarsi in visita estiva alle meraviglie del Gargano, sono le cave di Apricena, che si mostrano come grandi crateri di inerti ad annunciare un paesaggio intriso di luce e di drammatica bellezza.
Ci si avvicina con curiosità a vedere da presso quei grandi massi accumulati che crescono e ingrandiscono sempre più con l’incedere del passo fino a mostrare le dimensioni straordinarie di una montagna artificiale.
Invitano, quasi, alla salita per capire dall’alto cosa nascondono, ma nello stesso tempo incutono timore per il loro equilibrio precario e costringono a girarci intorno, alla ricerca di un varco, dal quale si scorgono in lontananza, profondità inattese ed uno spazio inedito e difficile da misurare con lo sguardo.
La curiosità rapisce e costringe, a poco a poco, ad avventurarsi al suo interno. Un percorso a spirale, come di girone dantesco, accompagna lungo pareti verticali che si alzano in misura proporzionale alla discesa. Enormi superfici segnate da linee orizzontali di lievi fratture, sfaldate, che rimandano a dimensioni megalitiche di possenti mura poggiate l’una sull’altra.
La luce si fa accecante ed il sole riverbera, sul biancore delle pareti, tutta la sua forza, diffondendo nel tremolio della calura estiva un assordante silenzio di pietra.
Si passa progressivamente, dall’iniziale configurazione incerta dei meandri della cava ad una geometria sempre più regolare, stereotomica, come a svelare di regole e di segreti nascoste al di sotto delle proprie viscere. Una sorta di architettura al negativo presenta, sempre più netta, i suoi caratteri ed i suoi dettagli, fatti di pieni e di vuoti in un continuum spaziale completamente dissolto nella luce.
Grandi stanze a cielo aperto si aprono in affaccio una sull’altra, distribuendo piccoli depositi di massi informi in attesa di essere rimossi, a testimoniare di come solo la pietra possa abitare questi luoghi; apparentemente inospitali ma capaci di restituire il fascino surreale di un paesaggio ciclopico nel quale vince, ancora una volta, l’armonia della natura.
Una natura che mostra tutta la sua forza nelle dimensioni inafferrabili di cavità che si sovrappongono una nell’altra. Una natura che svela, tuttavia, nelle sue pietre, i segni dell’artificio umano che l’ha generata. È tutto qui il fascino di questa drammatica bellezza, la consapevolezza che, nonostante le dimensioni impossibili, questo paesaggio lunare sia il frutto delle trasformazioni dell’uomo.
Trasformazioni continue, costanti nell’alternare giorni, mesi ed anni. Trasformazioni trascritte su ognuna delle pareti della cava, come in un grande libro della storia che narra di massi e di informi sottratti alle cavità della terra, per costruire in superficie palazzi, chiese, fortezze, in una sorta di ricomposizione regolata ed artificiale della città. Una città come espressione misurata di quelle stesse pietre sottratte alla Natura.
Massi inizialmente informi e privi di vita si trasformano, come per incanto, a restituire paesaggi altri da quelli originari, nuove figure si sostituiscono a quelle iniziali geometrie, in una dimensione artificializzata e domestica nella quale solo l’alchimia del progetto restituisce un ordine a quegli scavi apparentemente privi di significato.
Un significato che, invece, si traduce con la necessità, tutta dell’uomo, di modificare l’originaria configurazione naturale per la realizzazione di una dimensione diversa, artificiale: la città. Con i suoi tracciati, i suoi spazi, i suoi abitanti.
Da sempre l’identità di un territorio passa attraverso la riconoscibilità delle modificazioni operate sui materiali e sulle forme del suo paesaggio. L’interpretazione di quella stessa identità, infine, non può tacere l’immagine che essa stessa produce sul territorio, attraverso le figure elementari della trasformazione sapiente che dalla natura conduce all’artificio. Dalla cava alla città.
Nella città, quasi d’incanto, la pietra ri-prende vita nelle forme dell’abitare, portando con sé quella stessa luce diffusa e riverberata dalle grandi pareti della cava che l’ha custodita negli anni, impreziosendo ogni suo singolo riflesso.
I monumenti, le strade, le piazze si illuminano al chiarore del Sud, restituendo la magia di quel riverbero rapito alla natura del materiale, sia che si tratti di superfici lisce e distese, sia che si increspi nella lavorazione virtuosa delle abili mani degli scalpellini locali.
Quelle stesse pietre che il viaggiatore ritrova, oltre quegli immensi crateri, nei centri storici del Tavoliere nei palazzi, nelle chiese, nelle fortezze di queste città e che riportano direttamente alla memoria, i luoghi della loro estrazione ed il riverbero luminoso sulle grandi pareti della cava… il colore della luce.
Una luce stratificata dal tempo. Il tempo della pietra che è un tempo lungo, un tempo che oppone resistenza così come il materiale, duro, al lavoro degli uomini; ma capace di trasmettere più di ogni altro elemento il valore della propria trasformazione. Un valore duraturo, che si tramanda con le tradizioni e con la storia, di generazione in generazione; per quelli che verranno.
Apricena, Cava Kirò (ph. Sergio Camplone)