Hasanaginica nella cultura italiana ed europea

Stevka Šmitran

Il titolo si riferisce alla traduzione e alla ricezione della ballata Hasanaginica (dal serbo/croato La sposa di Hasan-Agà) nella lingua italiana e la sua fortuna internazionale.

È l’anno 1774 quando l’abate e naturalista padovano Alberto Fortis (1744-1803), già redattore del periodico LEuropa letteraria e del Giornale Enciclopedico, pubblica Viaggio in Dalmazia, opera in due volumi, dallo stampatore Milocco di Venezia.

Nel primo volume, nel capitolo De costume de Morlacchi, pubblica una sola poesia, la traduzione di Hasanaginica e la propone quale exemplum rappresentativo dei Canti Eroici, scrivendo quanto fosse «ben condotto e interessante».

Il celebre canto popolare entra così nella cultura europea e, per la prima volta, alla pari, sia per lingua che per stile, compete con le altre lingue e culture.

La scelta è indicativa di quanto Fortis non solo conoscesse bene la lingua morlacca o bosniaca, come veniva chiamata in quel periodo, ma avesse anche una conoscenza profonda dei popoli delle terre dell’Adriatico Orientale, terre balcaniche, terre degli Slavi del Sud, nomi che si avvicendavano a seconda del periodo storico o più semplicemente, terre dirimpettaie, terre frontaliere.

Il termine Hasanaginica fu coniato da popoli «fugentes a turchis», tra il 1646 e il 1649, nell’entroterra di Imotski, attorno alla piccola fortezza di Klis, l’ultima roccaforte caduta sotto l’Impero ottomano che vi resterà per quasi cinque secoli.

Bisogna considerare che in quegli anni, nel resto dellEuropa, nascevano il razionalismo e lempirismo e l’uso della ragione iniziava a imporsi sull’ignoranza e che tali dispute dotte non erano proprie dei Balcani i cui popoli testimoniavano la loro esistenza attraverso il canto orale.

È l’esempio di un popolo sottomesso la cui cultura subisce lo stravolgimento del comune pensare e che può esercitare il proprio potere solo attraverso i modelli tematici tramandati.

Sono i primi cinque versi introduttivi, dei complessivi novantadue che compongono la ballata, che segnano la storia di Hasanaginica, nonché del canone stesso della letteratura slava in generale.

Che mai biancheggia nel verde bosco
Che sian nevi o che sian cigni?
Fosser nevi si sarian disciolte, fosser cigni via sarian volati,
Non sono nevi né sono cigni
 ma son le tende dellagà Hasan.

I versi sottolineano la presenza di quel codice denominato lantitesi slava, che accomuna tutta la letteratura slava e consiste nell’uso di termini di paragone tra diversi soggetti, affermazione, esclusione e negazione, nella successione testuale espositiva.

Hasanaginica è poesia che non ha eguali in quanto suscita i sentimenti più nascosti dell’animo umano. Il contenuto del canto racconta del capitano turco Hasan-agà che, ferito in  un combattimento, si trova nel campo dove lo vanno a visitare la madre e la sorella, mentre la moglie, trattenuta dal pudore, resta a casa con i cinque figli, motivo per cui viene ripudiata dal marito e allontanata dai figli. Sarà obbligata a nuove nozze e, mentre il corteo nuziale passa davanti alla casa dove il marito è già tornato ed è pentito, il peso della sua ritrosia e il dolore del distacco dai figli, la uccidono, perché di amore si muore.

La donna è vittima di arretratezza patriarcale e il pudore, da virtù diventa tragica colpa, canone poetico di un enigma mai risolto.

Va detto che il titolo del poema, conosciuto anche come canzone dolente fu dato da Vuk Stefanović Karadžić, linguista, etnografo, codificatore della lingua serbo-croata (oggi lingue serba e croata). Fortis la definì «lingua vocalissima e armoniosa», a conferma della scelta  di tradurre Hasanaginica.

Nel 1775, solo un anno dopo, il ventiseienne J.W. Goethe traduce Hasanaginica in tedesco e i novantadue versi diventano patrimonio della cultura europea. In una lettera a Vuk Karadžić scriverà: «La vostra celebre lingua si è imposta anche ai nostri studiosi, come lingua da approfondire».

Se Fortis è stato determinante per aver tradotto Hasanaginica in italiano e aver unito le nostre due culture, J.W. Goethe lo è per averla tradotta in tedesco e per aver diffuso e fatto conoscere il mito slavo, luogo dove storia e fato s’intrecciano inesorabilmente.

Fortis, da grande naturalista e conoscitore della Dalmazia, ha il merito di essere lo scopritore, il primo divulgatore, si direbbe oggi di quella tradizione popolare che, di generazione in generazione, si raccontava per tenere viva la parola della lingua madre. Di certo, possiamo ritenere che è stata una valida risposta all’Europa dell’empirismo e del razionalismo di G. Galilei, B. Spinoza, R. Decartes, come anche dei romantici, J. W. Goethe, A. de Lamartine, P. Mérimée, W. Scott, C. Nodier, G. de Nerval, A. Mickiewicz, N. Tommaseo, G. Mazzini, A. Achmatova e di altri che si interessarono alla ballata.

Era già accaduto che le due coste del «dalmaticum mare» avessero rapporti, fin dall’impero romano, attraverso l’Umanesimo e il Rinascimento, fino alla conquista ottomana che ha congelato quello sfondo storico e spirituale condiviso. Quello che un tempo erano migrazioni e scambi di merci viene sostituito, nell’Ottocento, da una significativa  contaminazione letteraria.

La traduzione di J.W. Goethe di Hasanaginica, è da subito apprezzata e, a tutt’oggi, considerata la migliore traduzione per il suo valore stilistico, per l’autenticità dello spirito poetico e per essere riuscita a mantenere il metro originale, cioè il decasillabo trocaico, in seguito entrato nella letteratura tedesca come «trocheo serbo».

Nel 1778, la ballata viene inserita da G. Herder nella celebre antologia della poesia mondiale dal titolo Volken in Liedern e la sua fortuna arriva nei circoli letterari europei.

Il poeta russo A.S. Puškin, ha tradotto i primi ventisei versi di Hasanaginica, avendo avuto confidenza con i canti e le fiabe popolari già dalla primissima infanzia, raccontati dalla sua balia.

Piacque subito la ballata ai romantici europei da de Lamartine a P. Mérimée, da G. Byron a W. Scott da N. Tommaseo a G. Mazzini. Diverse furono le traduzioni, motivo di varie discussioni e tante le presentazioni dei «canti modello», come li definì Tomaseo, con l’accostamento a Dante e alla poesia mondiale di tutti i tempi.

La fama del canto fu tale che limmedesimazione e la suggestione poetica diedero adito a mistificazioni. Una di queste fu l’opera di P. Mérimée La gusla («strumento popolare a corda singola») del 1827, diario di viaggio in Dalmazia e Bosnia, luoghi della ballata, ad emulazione del viaggio di Fortis e che, nonostante risulti essere un viaggio immaginario, attraverso la propria partecipazione spirituale alla poesia e alla storia di quelle terre, ci offre tutta la sua forza poetica.

L’enigma splendido e terribile delle antiche costumanze famigliari che hanno prodotto il pudore come virtù patriarcale della donna, riesce ad emozionare ancora oggi. Da ultimo, va aggiunto che lanonimo autore della ballata si presume sia stata una donna che ha saputo trasferire il candore dei sentimenti nei versi ispirati.

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