Giorgia Meloni è prigioniera del suo mondo. No, non quello passato che pure, con una frequenza inquietante, riaffiora nel misero tentativo di riscrivere la storia. È prigioniera, la presidente del consiglio, del mondo che la circonda oggi. Che lei si è scelto: Ignazio La Russa, Daniela Santanchè, Andrea Delmastro, ovvero il presidente del Senato, la ministra del turismo, il sottosegretario alla giustizia. Personaggi chiave del mondo di Giorgia, imbarazzanti non solo per le vicende giudiziarie nelle quali, in sequenza temporale ravvicinata, risultano coinvolti.
Scomodi innanzitutto per il modo sopra le righe, inadeguato al ruolo istituzionale ricoperto, con cui hanno reagito alle iniziative intraprese dalla magistratura. Addirittura, il presidente del Senato ha sostenuto di aver «interrogato» suo figlio e di essersi convinto dell’innocenza rispetto all’accusa di stupro. Nessuno, prima di La Russa, aveva mostrato tanto disprezzo verso la separazione dei poteri. Neppure Beppe Grillo che ha il figlio sotto processo con un’accusa simile. Ma almeno, per la fortuna degli italiani, il comico ufficiale non ha mai ricoperto una carica istituzionale. Troppo tardi la premier ha provato a prendere le distanze da La Russa, cinque giorni che appaiono un’eternità nell’epoca del botta e risposta via social.
Sono dunque passati solo dieci mesi dal successo elettorale, sufficienti per la Meloni per interpretare l’azione dei giudici come un’indebita interferenza nella politica del governo eletto dal popolo. È scattata la sindrome del complotto. Come se lei e tutta la corte di fedelissimi che la circonda non sapessero che ormai da più di 30 anni ampi settori della magistratura ragionano come se dovessero svolgere un improprio ruolo di vigilanza morale su chi detiene il potere. Tutto è iniziato con Tangentopoli, con lo scoperchiamento della corruzione imperante, con un conflitto mai sanato tra politica e giustizia. Per avvisi di garanzia finiti nel nulla sono caduti governi di centrodestra (Berlusconi I, 1994) e governi di centrosinistra (Prodi II, 2008). Per arrivare poi ai tempi recenti, fino alle confuse inchieste sulla gestione del dramma della pandemia provocata dal Covid, con indagini a carico dell’ex premier Giuseppe Conte e del ministro della sanità Roberto Speranza. Accuse archiviate.
Giorgia Meloni, forte del legittimo consenso che le ha concesso un’ampia maggioranza in Parlamento, avrebbe potuto reagire con più stile. Invocando il garantismo, che resta un fondamento del nostro ordinamento repubblicano, e attendendo l’evoluzione degli avvenimenti. Ed eventualmente riservandosi di liberarsi di chi, in questo momento, appare meno difendibile; è il caso della Santanchè in bilico non tanto sul fronte giudiziario, ancora in evoluzione, ma debole proprio nel ruolo politico: una persona che non sa amministrare le proprie aziende può gestire, in veste di ministra, un settore così delicato come quello del turismo? Nella sua vicenda assistiamo al ribaltamento della retorica berlusconiana. Nel 1994 il Cavaliere fondò buona parte del suo successo politico sulla narrazione dell’imprenditore che aveva costruito dal nulla un impero economico in grado di assicurare lavoro, ricchezza e un sistema televisivo concorrenziale alla Rai. Un mito per il centrodestra di governo. Invece la Santanchè, da politica ormai di lungo corso quale è, ha provato a fare l’editore collezionando insuccessi. Talmente evidenti da essere premiata con una poltrona ministeriale. È questo il vulnus: politico, prima ancora che giudiziario. È l’esatto opposto del merito a cui, per beffa, hanno dedicato un ministero. Ma la Meloni fa finta di non vedere. Rifugiandosi nella tesi dell’assedio delle toghe ostili. Premiando i fedelissimi, anziché i competenti. In questo però non è troppo diversa da chi, come ai tempi di Matteo Renzi, concepiva Palazzo Chigi come una roccaforte da espugnare per poi impossessarsi dei gangli decisionali piazzando donne e uomini del cerchio magico. Ora è il tempo della fiamma magica.
In campagna elettorale, la scorsa estate, Fratelli d’Italia si è presentato agli elettori con lo slogan «Pronti». Sottinteso, pronti a governare, pronti dopo due legislature passate all’opposizione a cambiare le cose, pronti a candidare la nostra capa, Giorgia, a una responsabilità mai ricoperta prima da una donna. Sono stati bravi nel conquistare la fiducia degli elettori. La democrazia funziona così. È necessario però che questo governo di destra-destra, così diverso da quelli che lo hanno preceduto, dimostri davvero che cosa è in grado di realizzare, oltre le schermaglie quotidiane. Il fallimento dell’annunciata «rivoluzione liberale» dei governi di Silvio Berlusconi fu causato proprio dall’immobilismo politico di quelle due legislature (2001-2006; 2008-2011) in cui l’Unto del Signore disponeva di un’amplissima maggioranza. A parte le leggi ad personam, non una riforma è figlia di quella stagione. Sarà capace Giorgia Meloni di fare meglio dell’uomo che 30 anni fa portò al governo i post-fascisti dell’MSI?
Vedremo. È una storia ancora in evoluzione.