Il voto della Sardegna non chiude il ciclo politico dominato dalla destra, ma ne apre una fase nuova, ricca di incognite. Molto dipenderà dagli errori che i protagonisti, maggioranza e opposizione, commetteranno o eviteranno. Il voto, come accade spesso con la Sardegna, avrà un impatto sulla politica nazionale per una ragione: viene riscritta la competizione politica. Per rendersene conto occorre ricordare gli effetti della vittoria di Alessandra Todde come prima donna presidente della Sardegna.
Interrompe la lunga serie di vittorie della destra, che la Meloni aveva raccontato come la naturale conclusione degli anni dei governi tecnici a-democratici. Nello stesso tempo, mostra all’area progressista che sconfiggere la premier e la destra-centro si può: non è imbattibile. Mostra che il consenso di Fratelli d’Italia, dopo un anno e mezzo di governo nazionale, può ripiegare in una notte, nonostante, i sondaggi. Rivela che il declino leghista ha proporzioni impreviste. Boccia un candidato scelto direttamente dalla premier, imposto alla sua coalizione, che viene pesantemente sconfitto persino nella città che sta amministrando, Cagliari. Tutto il quadro politico può essere riletto secondo una chiave diversa da quella della vigilia.
Accanto a questi cambiamenti politici sembrano emergere due questioni più strutturali che forse faranno sentire il loro peso alle prossime elezioni europee. Il primo: il processo di leaderizzazione non solo si è compiuto, ma stavolta ha giocato a favore dell’alleanza Pd-M5S, cioè proprio di un’area che guarda con diffidenza ai leader. Ma il centro-sinistra dovrà imparare a fare i conti con questa trasformazione, che in Sardegna l’ha fatta prevalere anche in virtù di una mobilitazione femminile. Al contrario, i segnali che la Sardegna ha inviato sembrano un monito per la Meloni: il suo modo di intendere la leadership, la donna sola al comando in un Paese frammentato, comincia a non piacere. Non è da escludere che le manganellate ai liceali di Pisa da parte della polizia, come ha sostenuto la Todde, abbiano rinforzato questa percezione negativa.
Il secondo mutamento strutturale è il ruolo che ha giocato l’immaginario in Sardegna. Prima del voto, in un articolo su il Manifesto, il professore Alfio Mastropaolo aveva avvertito l’area progressista dell’importanza dell’immaginario nella lotta politica. La Todde è riuscita proprio a offrire ai sardi una narrazione che ha prodotto un immaginario differente: la salvezza per la Sardegna arriva solo con un cambiamento voluto con orgoglio dai sardi. Sull’onda della vittoria, la segretaria del Pd, Elly Schlein, che aveva voluto l’accordo con i grillini rinunciando a una candidatura Pd, ha potuto battezzare il suo immaginario: «Adesso cambia il vento». Una narrazione che potrebbe influire sulle elezioni tra qualche giorno in Abruzzo.
L’analisi del voto: il conflitto centro-periferia
Il voto si è giocato quasi per intero sulla mappa elettorale: si trattava di capire se i centri capoluogo, dove la Todde ha avuto un vantaggio fino a 15 punti, avrebbero o no controbilanciato il vantaggio di Truzzu e della destra nei comuni più piccoli e diffusi, dove ha contato un vantaggio medio del 5%. Todde ha prevalso a Cagliari, Sassari, nella sua Nuoro (con il 54%) Quartu Sant’Elena, mentre alla destra sono andati Olbia, Oristano, Alghero e tanti piccoli comuni. In questo conflitto elettorale il dato più pesante per il candidato meloniano è stato quello di Cagliari, la città di cui è sindaco uscente: qui Alessandra Todde è arrivata al 53%, mentre Truzzu aveva vinto 5 anni fa al primo turno con oltre il 50% dei voti. Oggi il sindaco ha perso quasi 20 punti. In genere il conflitto centro-periferia si conclude con la prevalenza della periferia, più numerosa e diffusa. La destra al nord ha spesso prevalso in virtù di questa caratteristica socioeconomica del suo elettorato. Ma in Sardegna il suo effetto si è rovesciato.
Si devono aggiungere due elementi: il voto disgiunto (si può votare una coalizione e il presidente della coalizione avversaria) e l’immagine dei candidati.
A Truzzu mancano circa 3/4 mila voti della destra: le liste che lo sostengono hanno raccolto 328 mila voti, lui ha avuto meno preferenze circa 325 mila. Molti elettori che hanno votato per la coalizione di destra hanno però scelto la candidata avversaria come presidente. A chi sono andati? A Todde? A Soru? Entrambi hanno preso più preferenze delle loro coalizioni. Ma Alessandra Todde ha prevalso di circa 40 mila voti, Soru ne avrebbe avuti circa 8 mila in più. Quindi la nuova presidente ha attratto più voti dall’esterno della coalizione e ha beneficiato di più del voto disgiunto. Questi dati confermano (se ce ne fosse bisogno) la centralità della figura del leader-candidato anche per l’area progressista. Emerge con chiarezza il problema che la Meloni ha con una classe dirigente non all’altezza delle sfide. Non è la prima volta che la premier ha scelto il candidato sbagliato: è accaduto per il sindaco di Roma nel 2021 con Enrico Michetti.
Dopo la vittoria del settembre 2022, la Meloni sembra essersi convinta di essere diventata la regina che con un tocco di spada trasforma i suoi seguaci (amici e parenti) in cavalieri vincenti. Ma questa magia, entro certi limiti, era possibile al Silvio Berlusconi degli anni della sua ascesa. Non sembra un potere a disposizione della premier. La Meloni era probabilmente consapevole che Solinas, il presidente uscente, sarebbe stato sconfitto (vinse nel 2019 prendendo anche lui meno voti delle sue liste). Ha cercato di porvi rimedio cambiando candidato. Tuttavia, era abbastanza noto che il giudizio di Cagliari su Truzzu non fosse positivo. La premier si è auto assegnata il compito di porvi rimedio. Di fatto ha nascosto Truzzu, sovrapponendo la sua immagine: la Sardegna è stata riempita di manifesti della premier, come se i sardi avessero dovuto votare lei e non Truzzu. Un atto di sovrastima delle sue possibilità, che ha legato la premier alla sconfitta. Ma ancora più grave: ha obbligato lei e la sua maggioranza a scontrarsi con la realtà. La supponenza è stata punita e adesso sarà costretta a valutare con cautela l’idea di candidarsi ovunque come capolista alle europee.
Se guardiamo ai partiti, infatti, scopriamo che FdI scende dalle politiche del 2022 in cui ha avuto il 23,6% al 14%. Si tratta di elezioni diverse, ma forniscono un’indicazione sulla possibile tendenza del clima di opinione. Del resto, la Lega in Sardegna è passata al 27,5% delle europee del 2019, anno del boom, al 6,25% delle ultime politiche, per scendere ancora al 3,8% delle attuali regionali. Un declino drammatico. Si difende meglio Forza Italia che dal 7,8% delle europee in Sardegna, è salita all’8% delle politiche dell’anno scorso, ma è ridiscesa al 6,6% delle regionali. Si può prevedere che le tensioni che dividono la destra all’interno non si placheranno, soprattutto la serrata competizione tra Salvini e Meloni, ma che non potranno sfociare in una crisi del governo o dell’alleanza.
La vittoria della Todde, del resto, non cancella i problemi del centrosinistra. A vincere è la candidata indicata da Giuseppe Conte, ma questo non vuol dire automaticamente che la coalizione verrà guidata dai cinquestelle. Il Pd resta stabile primo partito con quasi il 14% in linea con le regionali del 2019 al 13,5%, cedendo rispetto alle politiche, che avevano segnato un 18,7%. In realtà sembra che il Pd abbia ceduto qualcosa alle liste civiche del centrosinistra, un fenomeno frequente nelle amministrative per quel partito. Il M5S non si avvicina per nulla al primato con un 8% circa. E anzi cade decisamente rispetto alle politiche dove aveva superato il Pd con un 21,8%. Azione con Soru, che ha collezionato un significativo 8%, in linea con i dati della Moratti in Lombardia e i voti dell’ex Terzo Polo, conferma il suo 4%. La Meloni che alle politiche aveva staccato il Pd adesso è leggermente dietro la Schlein.
Questo voto sdrammatizza la rinuncia alla candidatura da parte del Pd: la generosità, come l’ha definita la segretaria, in Sardegna è stata premiata. Il centrosinistra e l’area riformista ricevono una indicazione stringente dagli elettori: per essere competitivi devono imparare a superare le differenze e a costruire una coalizione di diversi. La strada è obbligata, il responso delle urne è un sigillo. Un discorso che vale anche per i riformisti: il dato di Soru certifica che uno spazio progressista moderato esiste, può aspirare a un 8-10 per cento. Non è molto ampio in questo momento storico, ma quello che gli elettori sembrano dire è che non si può ipotizzare un centro autonomo rispetto alla polarizzazione sociale e politica. Se vogliono pesare, i riformisti devono decidere se essere la colonna moderata di un ampio e variegato fronte progressista oppure no. Le differenze non vanno cancellate ma governate. Se Soru avesse appoggiato Alessandra Todde, la vittoria sarebbe stata travolgente.
La leaderizzazione e il nuovo modello femminile
La vittoria di Alessandra Todde rilancia la questione del processo di leaderizzazione in corso da tempo nella società moderna. Un processo che ha incontrato non poca resistenza a sinistra, mentre è stato subito recepito a destra. In Sardegna però questo processo ha giocato a favore proprio della sinistra. Secondo la teorizzazione di Weber, il leader trova la sua legittimazione in un rapporto diretto con i cittadini. Weber ha individuato soprattutto (ma non solo) nel potere carismatico la qualità del leader, che basa la sua autorevolezza sulla sua capacità di operare in modo eccezionale. Il leader oscilla tra l’ordinario e lo straordinario: è insieme uno di noi, ma anche capace di compiere azioni fuori dell’ordinario. La leadership ha una natura performativa: è tale perché, se ha compiuto gesta fuori dall’ordinario, può compierle di nuovo per la collettività.
Alessandra Todde ha una biografia che suggerisce questa percezione: due lauree di cui una nell’informatica, parla quattro lingue straniere, ha lavorato come dirigente all’estero a Boston, in Olanda, in Spagna, per poi rientrare in Sardegna. Venne scoperta da Luigi Di Maio e lei, che aveva votato per il Partito sardo d’Azione, accettò la nuova avventura e diventò poi viceministra al Mise. Non era molto conosciuta in Sardegna, ma ha subito impostato la sua campagna tornando alle origini: un metodo isolano, sardo (il nonno era sardista, il padre democristiano), lontano dalla politica nazionale. A tal punto che, quando Conte e la Schlein per lei erano disposti a fare un comizio insieme, fatto raro, lei ha rifiutato. Si tratta di una leadership costruita dal basso del territorio, ma che ha avuto tutte le caratteristiche del leader previste dal professore Carlo Marletti, compianto studioso di comunicazione politica: attitudine, trasversalità, conflitto con gli apparati e il ceto politico degli intermediari. Quello che lo sguardo nazionale dei media ha poco considerato è l’essere donna. Da subito Alessandra sembra avere impersonato, istintivamente, un nuovo modello di leader femminile. Ho visto alcune sue interviste su tv locali in cui lei appariva circondata da un gruppo di donne, sempre con lei, tra cui Camilla Soru, esponente del Pd e figlia del suo concorrente, che spiegavano al cronista la politica di Alessandra, mentre la candidata annuiva. Attorno ad Alessandra sembrava essere scattata una sorta di rete solidale femminile che l’ha accolta, protetta, sostenuta. Colpisce la vicinanza della figlia di Soru contro suo padre, che dopo il voto ha dichiarato: «Sono lieta che mio padre non ci abbia fatto perdere». Proprio questa stessa connessione femminile deve avere aiutato un’altra leader, Elly Schlein, a cedere volentieri la candidatura al partito di Conte.
Donne di orientamenti progressisti diversi hanno superato spontaneamente i confini politici, impegnandosi per la riuscita della prima donna presidente della Regione. Emerge un modello di leadership femminile che non solo si differenzia rispetto a quella maschile, ma che si oppone al modello della Meloni di donna sola al comando. In questa versione, la leadership femminile consiste nella capacità di tenere insieme cose e persone diverse: il suo potere sta nell’unificare, in una empatia sociale non priva di determinazione. Al contrario, la leadership maschile separa, s’impone, vuole. Quella maschile è la leadership dell’Io. Quella femminile rappresentata dalla Todde sembra più quella del Noi. Una simile figura non può che opporsi al modello meloniano, più contiguo a quello maschile, nella quale una Lei compete con un Lui per guidare. È la sostanza della sfida Meloni-Salvini. L’affermazione nel centrosinistra di una seconda leadership femminile, dopo la segretaria del Pd, sembra un segno dei tempi nuovi.
Valgono sullo sfondo i mutamenti strutturali che hanno favorito l’ascesa dei leader nelle democrazie moderne: la personalizzazione, la mediatizzazione, il cambiamento istituzionale con il passaggio dalla democrazia parlamentare a una democrazia in cui prevale l’esecutivo, la disintermediazione favorita dalla spettacolarizzazione. L’importanza della leadership oggi sembra prescindere dai fattori strutturali per porre l’enfasi due aspetti diventati cruciali: il potere mediale del leader, che costruisce la narrazione, e il suo collegamento con l’immaginario sociale.
È lo spostamento di rilevanza dalla rappresentanza del Novecento alla rappresentazione, nella quale ha un peso non indifferente la dimensione emozionale. La centralità della leadership, infatti, trova la sua legittimazione nella capacità di convocare passioni prima che elementi di progettualità razionale.
L’appello della Todde alla fierezza dei sardi contro le delusioni sembra avere avuto un significato: mobilitare i cittadini alla partecipazione ad una speranza in sé stessi. Prima della sfiducia in un governo del continente. Prima del suo stesso governo regionale, che pure vuole il cambiamento. La Todde e le altre sono riuscite a ridefinire l’identità della Sardegna, cambiandone il modo di vedere sé stessa.
L’ immaginario sociale e la verticalizzazione del Paese
Il nesso con l’immaginario rende la leadership centrale. Il professore Mastropaolo, pochi giorni prima del voto, ha rammentato ai progressisti la sua rilevanza. E in Sardegna questa influenza si è vista. Per capirlo, in un’ampia letteratura scientifica, si può forse fare un riferimento al libro di un filosofo Charles Taylor, Gli immaginari sociali moderni. Taylor di fatto definisce l’immaginario come un sapere di sfondo, che incorpora e rende scontata l’interpretazione della realtà che una società condivide. Ne sostiene le prassi e le interazioni. In questa accezione, l’immaginario è un concetto contiguo a quello di senso comune. Vale a dire: quello che noi chiamiamo realtà è una costruzione sociale, come ha spiegato Alfred Schutz. La nostra esperienza non è composta di meri dati della percezione, ma sono fatti interpretati, cioè, compresi secondo uno schema di rappresentazioni mentali, solidali con pratiche, routine, un sistema di credenze.
Per esempio, la destra al governo vuole legittimare la credenza che le forze dell’ordine per far rispettare le norme possono ricorrere a mezzi coercitivi, come è successo a Pisa. L’immaginario è l’immagine che abbiamo della realtà, che noi crediamo che tutti gli altri credano, e vive grazie all’adesione di ognuno. Non a caso la Todde ha attaccato la Meloni proprio su questo punto: ha introdotto un immaginario femminile (e non solo) in cui i figli adolescenti che fanno una manifestazione (che magari i genitori non condividono) devono essere liberi di farlo e la polizia deve tutelarli non colpirli senza motivo. La comprensione del mondo muove da credenze che valgono come presupposti.
Dopo la netta vittoria alle politiche, la premier era abbastanza riuscita a imporre il suo immaginario, la sua egemonia culturale, anche attraverso una occupazione senza precedenti della Rai e la vicinanza di Mediaset, quindi di quasi tutto il sistema televisivo nazionale. Il voto in Sardegna è importante proprio perché segnala che questa precomprensione implicita di ciò che ci circonda, è messa in discussione. L’opposizione finora era stata incapace di bucare lo schermo e spezzare questa interpretazione. Per la prima volta è riuscita a diffondere una narrazione alternativa.
Come ha spiegato Benedict Anderson, la nazione è composta da abitanti che non si conosceranno mai, eppure «nella mente di ognuno vive l’immagine di essere una comunità». Durante il Sessantotto, a Parigi si gridava per le strade «l’immaginazione al potere!», ma secondo studiosi come l’antropologo Levi-Stauss, l’immaginazione è sempre al potere. Ogni potere si legittima attraverso l’oggettivazione di rappresentazioni del proprio passato e futuro a cui chiama i cittadini. Ogni potere costruisce immagini di coloro che intende unire e guidare e dei suoi nemici, dai quali si distanzia. È quello che quotidianamente fa la Meloni, che non manca di accusare l’opposizione di sinistra per ogni problema. La premier si stabilizza con una narrazione in cui l’Italia miete successi all’estero (ormai il suo primo palcoscenico), l’economia va bene, il governo si occupa delle ingiustizie, difende la società dall’immigrazione, mantiene l’ordine. La premier attua (forse senza saperlo) il teorema di Thomas: se gli uomini definiscono una situazione come reale, essa è reale nelle conseguenze. Questo specchio però in Sardegna si è infranto. Il monito che è arrivato a Palazzo Chigi è chiaro: il suo progetto di verticalizzare il Paese, nelle istituzioni e nella società, non sembra così condiviso.
Come è successo?
Un indizio sembra fornircelo Taylor: questo sapere di sfondo lo definiamo immaginario e non sistema di credenze o conoscenza tacita per una ragione. Immaginario è una nozione che accentua una dimensione figurazionale del sapere che è in gioco: è più una percezione che una cognizione. Meglio: è una percezione nutrita di emozioni. Vedere il filmato della polizia in assetto antisommossa che attacca con durezza dei quindicenni, ha scosso il Paese. E forse ha coagulato dubbi che cominciavano a circolare. E dato che l’immaginario è una attività in cui le persone effettuano una loro proiezione sul mondo, la Meloni e la destra sono state viste in modo diverso. È scattata, secondo l’insegnamento di Taylor, la distinzione tra «il vedere qualcosa in una determinata luce e il mero prendere atto di qualcosa come auto evidente».
Esiste un rapporto tra i mondi immaginati e la vita quotidiana: nei mondi narrati riconosciamo qualcosa della nostra esperienza. Questo rapporto sembra incrinato. L’economia va bene? Ma come è possibile se il mio potere d’acquisto si è ridotto? Immaginare evoca credere che la realtà stia in un certo modo. Forse per questo Alessandra Todde ha marcato la differenza con la Meloni, ponendo i fatti di Pisa in primo piano. Perché anche altre narrazioni convincono meno e possono essere collegate. Antonio Gramsci avrebbe detto: così ha stabilito una «connessione sentimentale» con i governati.
La premier, dunque, è avvertita: difficilmente potrà continuare sulla strada passata. Dovrà interpretare la frammentazione del Paese, e la sua stessa coalizione, in modo diverso. Se ne è capace. Non ha risorse per accontentare tutti e potrebbe essere spinta a mostrare maggiore apertura. Se sarà in grado.
La Schlein, a sua volta, non potrà restare una leader che fatica a stabilire una risonanza con la società. La situazione è incerta. Crescono risentimenti e divisioni. L’immaginario serve alla produzione di ordine del mondo e di senso. Dentro e fuori ciascuno di noi. Il conflitto si giocherà anche in questo luogo.