L’Italia al palo, ripartire dai salari

Marco Panara

L’Italia è ferma. Sono ormai più di trent’anni che il prodotto interno lordo cresce marginalmente e in misura significativamente inferiore rispetto ai paesi comparabili, meno che negli altri paesi crescono gli investimenti, il valore aggiunto, la produttività, i salari. Abbiamo pensato per molto tempo che la rigidità del mercato del lavoro fosse il problema e lo abbiamo reso flessibile ma all’aumento della precarietà che ne è conseguito non ha fatto riscontro una crescita degli altri indicatori. I profitti ne hanno tratto un qualche giovamento ma alla crescita dei profitti non ha fatto seguito una vigorosa crescita degli investimenti.

Dall’inizio di questo secolo ci siamo assestati su una ripartizione del Pil che va per il 60 per cento al lavoro e il 40 al capitale e non è una ripartizione ottimale perché una buona parte della quota che va a remunerare il capitale non va ad alimentare l’economia reale ma la rendita finanziaria, mentre quella che va a remunerare il lavoro torna nell’economia reale perché diventa consumo e quando possibile risparmio finalizzato all’investimento in beni durevoli.

La crescita della remunerazione del capitale rispetto al lavoro non caratterizza solo l’economia italiana ma tutti i paesi di vecchia industrializzazione che tra gli anni ’60 e ’80 del secolo scorso avevano raggiunto un equilibrio assai più virtuoso poi eroso progressivamente da finanziarizzazione dell’economia, globalizzazione, trasformazioni tecnologiche, perdita di potere contrattuale del lavoro e di incisività delle politiche redistributive, i cui esisti più evidenti sono la concentrazione dei redditi e della ricchezza e l’esplosione delle disuguaglianze.

È uno dei fattori che rallentano la crescita dei paesi di vecchia industrializzazione ma nel caso dell’Italia, che infatti cammina strutturalmente meno degli altri, non è il solo.

C’è qualcosa di più specifico del nostro paese e dobbiamo cercarlo nel modello di sviluppo e nel ruolo che ci siamo dati nelle catene globali del valore. Siamo da sempre nelle tecnologie basse nelle quali ci siamo trovati esposti alla competizione dei paesi a basso costo del lavoro, e in quelle intermedie dove mordono assai le potenze già emerse di più recente industrializzazione.

La nostra risposta al mutato scenario è stata di competere sui costi, e di qui la serie di interventi per rendere più flessibile il mercato del lavoro e la pressione costante delle associazioni datoriali per ridurre il cuneo fiscale, e delle corporazioni di tutti generi per avere benefici fiscali diventati poi quella selva di tax expenditures che insieme al nero, una gigantesca tax expenditure non formalizzata ma ampiamente tollerata, devastano i conti pubblici del paese.

E di qui soprattutto il blocco di fatto dei salari, che dal 1991 ad oggi sono cresciuti in termini reali dell’1 per cento contro il 33 per cento della media dei paesi dell’Ocse: gli altri l’1 per cento l’anno e noi l’1 per cento in trent’anni! L’Italia, che nel 1992 era nona nella classifica Ocse per il livello dei salari medi reali, nel 2022 era ventiduesima.

Molte cose hanno contribuito a questa tragica performance. I contratti nazionali non hanno prodotto risultati adeguati e il tentativo di affidare alla contrattazione di secondo livello la spinta dei salari non ha funzionato, nonostante gli incentivi fiscali sui premi di produzione, perché è rimasta relegata ad un numero troppo limitato di aziende, che peraltro sono tra quelle che hanno registrato aumenti della produttività più significativi.

I sindacati devono fare una profonda riflessione su questo e forse avviare una nuova stagione. Ma è l’intero sistema che deve resettarsi e riflettere sulla necessità di cambiare paradigma e puntare su un modello di sviluppo aggiornato. Avere puntato sulla competizione sui costi, che è l’onda lunga dei decenni del secolo passato nei quali ci affidavamo alle svalutazioni competitive, è stato un errore sistematico e strutturale commesso con la complicità di tutti che ha fatto arretrare il paese su tutti i fronti e crescere solo nel debito pubblico.

Abbiamo sottoscritto un patto sociale al ribasso fatto come abbiamo detto di nero, di tax expenditures, di vantaggi corporativi e rendite diffuse, salari bassi, welfare in erosione e servizi scarsi in cambio di prezzi bassi. Il sole, il cibo e il bel paese aiutano e ci siamo auto-narcotizzati, siamo diventati incapaci di reagire ad ogni pezzetto di benessere, di welfare, di futuro, di qualità della democrazia che ci veniva tolto. Di più: siamo stati e siamo complici, pervasi ormai dall’idea fallimentare di poter risolvere individualmente i problemi collettivi.

Di questo patto sociale e conseguente modello economico perdente i salari bassi sono un pilastro portante e, al contempo, tra le ragioni principali della malattia. Perché sono diventati una rendita, non per i lavoratori ma per il sistema, che non ha incentivi e pressioni ad evolvere.

Dobbiamo riflettere sulle ragioni per le quali economie come quella francese, tedesca, britannica, svizzera, olandese, scandinava e tante altre che hanno salari assai più alti di quelli italiani non per questo perdono competitività.

Possiamo affrontare la questione salariale da due punti di vista. Il primo è quello classico, i salari non sono una variabile indipendente e quindi non possiamo sognare la luna epperò possiamo far sì che crescano almeno in linea con la produttività. La produttività cresce poco, ed è uno dei problemi dell’Italia, ma è cresciuta più dei salari che non hanno tenuto il passo e devono recuperare. È un obiettivo sacrosanto da perseguire con ostinazione.

Ma c’è anche un altro punto di vista dal quale si può affrontare la questione, un punto di vista macroeconomico, ed è quello di collegare la pigrizia del sistema alla rendita da salari bassi. In sostanza il costo contenuto del lavoro non ha spinto le imprese a spostarsi verso i livelli più alti della catena del valore, a investire e a innovare. E di conseguenza non ha spinto il paese a fornire le infrastrutture materiali e immateriali necessarie perché settori ad alto valore aggiunto e ad alto tasso di innovazione possano crescere e prosperare. Il circolo vizioso invece del circolo virtuoso.

Dobbiamo imparare a leggere i segnali. La Francia è il paese più turistico del mondo con una industria del settore avanzatissima e un’organizzazione pubblica invidiabile, eppure è molto difficile che un ministro o qualunque membro della classe dirigente del paese affermi che il futuro della Francia è nel turismo o che la Francia deve puntare sul turismo per garantirsi un prospero futuro. E non lo fa perché, se certamente il turismo è un settore importantissimo per l’economia, l’occupazione, la valorizzazione della cultura e della natura, il suo valore aggiunto è però basso, i salari sono bassi, il tasso di innovazione è basso. In Italia invece capita spesso di sentire affermazioni del genere.

Da molti anni abbiamo concentrato una quantità impressionante di incentivi fiscali fino all’assurdo e per tutti noi costosissimo 110 per cento sull’edilizia, che è un settore altrettanto importante, e sappiamo bene quanto lavoro ci sia da fare per rendere decente e affidabile il patrimonio immobiliare cresciuto tanto estesamente quanto anarchicamente nel Secondo Dopoguerra, ma anche lì i salari sono bassi e poca l’innovazione.

Abbiamo dato vantaggi fiscali alle partite Iva fino a 85 mila euro, come se le partite Iva, senza nulla togliere al loro ruolo, possano essere portatrici di sviluppo e innovazione.

La contraddizione del nostro paese e di tutti noi è che pensiamo di vivere da paese ricco con una struttura economica da paese a reddito medio che sta scivolando verso il medio basso. Non c’è una cura breve per sciogliere questa contraddizione, si può però avviare un percorso che progressivamente ci porti verso una struttura produttiva e una infrastruttura pubblica in linea con la nostra legittima aspirazione, che ha la sua ragione nel fatto che una generazione fa eravamo in linea, il nostro reddito pro capite era come quello dei francesi e si era avvicinato molto a quello degli americani. Poi loro hanno continuato a camminare e noi ci siamo fermati.

Dobbiamo riconoscere, svelare e combattere le soluzioni al ribasso, che ahinoi sono quelle che dominano il dibattito pubblico in questi anni. Le chiusure, le semplificazioni, lo sguardo all’indietro, le prese di distanza dall’Europa, la tentazione dell’irresponsabilità. Diffidare di chi chiede ancora di abbassare il costo del lavoro, di aumentarne la precarietà. E invece impegnarsi per ridare valore al lavoro, a cominciare dal suo valore economico.

I salari sono un serio punto di partenza, aumentarli il giusto è doveroso ma sono anche e forse soprattutto una leva per spingere il sistema verso l’aumento di valore, verso l’innovazione, verso il futuro. Non è impossibile, un pezzo d’Italia già lo fa, le imprese più aperte, più innovative, più internazionalizzate, più managerializzate, che sono quelle che remunerano meglio i loro dipendenti e hanno i profitti più elevati. Sono tante ma non sono abbastanza, sono un’avanguardia che ci dimostra che si può fare ma non sono il sistema.

Dal salario minimo ai rinnovi contrattuali è il momento di un impegno responsabile ma determinato per ridare valore al lavoro, magari recuperando per la strada la consapevolezza che, se i problemi collettivi si affrontano collettivamente si può vincere tutti, se si pensa di farcela da soli è sicuro che perdono tutti.

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