Da anni ho rinunciato all’auto. E confesso, malgrado gli inevitabili disagi, di sentirmi meglio. Presi la patente nel 1975, non avevo ancora vent’anni e ricordo l’ebbrezza delle mie prime guide, su una Fiat 500, di terza mano, targata TOA53320. Da lì in avanti, una serie infinita di chilometri: anche all’estero, ad esempio in California, lungo la costa, percorsa per tre volte, entrando in terra messicana, a Tijuana, uno dei confini più caldi tra USA e Messico.
Otto anni fa ho detto: basta. Addio al volante. Non riuscivo più a vivere la mia città, Torino, mi stancavano le code, la ricerca del parcheggio, le monetine che non bastavano mai, l’impazienza e la volgarità di molti automobilisti. Quei clacson suonati per qualsiasi occasione, in ogni momento. Così, ho recuperato la felicità di camminare e, soprattutto, di prendere i mezzi pubblici. Per me che amo leggere ecco i preziosi minuti dedicati ai quotidiani, a quel romanzo da finire, a quel saggio da approfondire: con il desiderio di allontanare, mentalmente, emotivamente, la fermata. Ma non è solo questo: la bellezza di veder scorrere Torino, la mia amata Torino, quell’angolo ritrovato, quella piazza dimenticata, quella strada che ti vide sfilare in corteo da ragazzo, il pugno alzato, coltivando la speranza di un mondo migliore, in una società non più divisa in classi. La Torino bella, affascinante e misteriosa.
E su tram e pullman capisci le persone, quelle reali e non quelle virtuali: ascolti le loro speranze e la loro rabbia, intervieni quando i discorsi scivolano sul bieco razzismo, purtroppo sempre più frequente. Vedi tutte quelle teste chine su smartphone e tablet, a cercare, spesso, un universo che non esiste. Ma, in mezzo a quel deserto, ecco la ragazza presa da un romanzo di Italo Calvino, lo studente letteralmente catturato da Paul Auster, l’anziano commuoversi nel rileggere una lettera arrivata da chissà chi e da chissà dove, il giovane alle prese con Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway (mio figlio si chiama Santiago per quell’indimenticabile pescatore).
Tram e pullman, più di tanti inutili talk-show televisivi, regno di tutte le banalità del possibile e dell’impossibile, ci narrano chi siamo, il nostro quotidiano, sono la fotografia del nostro Paese, ti danno il senso della crisi che divampa sul nostro presente e, quel che è peggio, sul futuro dei nostri figli.
Mi rivedo, liceale, sul 10: da Santa Rita arrivare alla fine di corso Vinzaglio, per poi prendere le vie che mi avrebbero portato al Quinto Liceo Scientifico, in via Juvarra. C’era ancora, sul tram, il bigliettaio e non si poteva parlare al conducente. Si sfogliavano i giornali e le riviste. Si discuteva forte di calcio e di politica, di scioperi alla Fiat e di assemblee a scuola. Ripensavo a Guido Gozzano e alla sua Torino, con «le dritte vie corrusche di rotaie». Alla Torino invernale di Giovanni Arpino nel suo capolavoro, La suora giovane. Ai tram di Cesare Pavese. Una Torino che era ostinata e orgogliosa: del suo acciaio e della sua ribellione, della sua esistenza e della sua Resistenza. Ogni volta che prendo il 10 mi prende, con una morsa al cuore, la nostalgia per quei giorni là. Sarà perché invecchio, sarà perché non smetti mai di riprendere per mano la tua giovinezza.