Pietruzzu, Pablito, Luca e Totò centravanti ora nel mito

Darwin Pastorin

In quattro anni, il calcio italiano ha perso quattro suoi centravanti: campioni che hanno segnato non soltanto la nostra epopea sportiva, ma anche quella letteraria e sociale. Pietro Anastasi (2020), Paolo Rossi (2020), Luca Vialli (2023) e Totò Schillaci (2024), legati dal filo conduttore di aver tutti giocato alla Juventus, sono stati simboli del nostro football e protagonisti di momenti storici e persino politici importanti: perché il pallone, quel semplice pallone, non rappresenta soltanto una passione popolare, ma, come intuì Jean-Paul Sartre, una autentica «metafora della vita».

Pietruzzu Anastasi, centravanti dalla rovesciata proletaria, figlio del sud, di Catania, lasciò il suo segno calcistico in quel Sessantotto di un vento forte: il Maggio francese con la contestazione studentesca, le proteste operaie, il Vietnam e Praga, gli omicidi di Martin Luther King e Bob Kennedy, i pugni alzati di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi del Messico. Pietro, al fianco di Gigi Riva, il breriano «Rombo di Tuono», trascinò, ancora del Varese, l’Italia a conquistare, con una rete sudamericana, il suo primo Europeo (contro la Jugoslavia, all’Olimpico di Roma). Pochi mesi dopo, il centravanti viene acquistato dalla Juventus degli Agnelli per 660 milioni. Anastasi diventata l’idolo dei lavoratori meridionali della Fiat Mirafiori, che soltanto la domenica smettono di contestare il padrone!

Paolo Rossi è stato il protagonista, con l’allenatore Enzo Bearzot, il Vecio narrato da Giovanni Arpino, del mundial di Spagna ’82. Convocato da Bearzot dopo una lunga e ingiusta squalifica per lo scandalo delle scommesse clandestine, e con sole tre partite e un gol in bianconero, Pablito, dopo un avvio di manifestazione denso di ombre, riscrive la sua storia umana e professionale segnando tre reti al favoritissimo Brasile, due alla Polonia in semifinale, e una alla Germania Ovest nella finale: gli azzurri, a Madrid, davanti al nostro presidente Sandro Pertini, felice come un bambino in tribuna d’onore al fianco del re Juan Carlos, firmano una impresa da realismo magico. Pablito si aggiudica il titolo di goleador della Coppa con sei gol e, successivamente, il Pallone d’Oro.

Luca Vialli e, soprattutto, Totò Schillaci sono stati, con Roberto Baggio, il Divin Codino, protagonisti di Italia ’90, il mondiale delle nostre «notti magiche» e di un terzo posto lucente.

Vialli, che porterà la Sampdoria, un anno dopo, a fregiarsi del primo e, per ora, unico e funambolico scudetto. Un ragazzo intelligente, ironico, divertente. Un 9 di tecnica e folgore, lui e Roberto Mancini, il fine dicitore, hanno saputo divertire e divertirsi. Anche nel passo d’addio, con al fianco la famiglia e l’amico fraterno Massimo Mauro, ha dato esempio di dignità, di tenerezza, di gentilezza, di bellezza.

Totò Schillaci, in quella coppa nostrana, cannoniere con sei reti e poi Pallone d’Oro, proprio come Pablito in terra spagnola, rappresentò il canto popolare, il riscatto del sud, con quei suoi occhi spalancati alla meraviglia e allo stupore e quelle sue prodezze che sapevano di zolle, di fame, di vita. Davvero, come ha titolato Tuttosport”, «Un italiano vero».

Saluto questi quattro miti con le parole di un altro centravanti, che giocò, da ragazzo, nella Patagonia argentina, prima di diventare uno dei più grandi scrittori sudamericani: Osvaldo Soriano. Incipit del racconto Controfóbal: «Mi ricordo i tempi in cui abbiamo cominciato a rotolare insieme, la palla e io. È stato su un prato a Río Cuarto de Córdoba dove ho scoperto la mia vocazione di attaccante. A quell’epoca il modello del calciatore era Walter Gómez, l’uruguayano che giocava nel River, ma ci impressionava anche Borelli, lo sfondatore del Boca. Tutt’e due portavano il numero nove sulla maglia, come Lacasia nell’Independiente e Bravo nel Racing».

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