La destra populista italiana della Meloni e di Salvini allo scoperto e all’attacco: il diritto non è Legge

Sergio Baraldi

Il diritto non è Legge. Potrebbe essere questa la spiegazione della reazione del governo, a cominciare dalla premier Meloni e dal ministro Nordio, alla sentenza della sezione Immigrazione del tribunale di Roma, presieduta da Luciana Sangiovanni, che ha costretto l’esecutivo a rimpatriare in Italia gli immigrati destinati al centro di accoglienza in Albania.

Non si tratta solo di un conflitto tra poteri dello Stato, come è stato osservato da molti commentatori. La divaricazione istituzionale è più profonda. Non si può pensare che il governo non sapesse che la legislazione europea, dopo la decisione della Corte di Giustizia il 4 ottobre sui paesi sicuri, ha reso inapplicabile il protocollo di Tirana. E le sentenze della Corte di giustizia sono valide in tutti i paesi della comunità. I magistrati italiani, quindi, stanno solo applicando la legge. La questione da capire è perché, se il governo era consapevole che quella procedura è illegittima, ha reagito con estrema durezza, al punto da attaccare il tribunale e convocare un Consiglio dei ministri lunedì per cercare di aggirare la sentenza.

Il conflitto sul riconoscimento del potere
La ragione va ricercata nelle motivazioni che hanno spinto la maggioranza a separare il diritto dalla Legge e a presentare il conflitto come uno scontro tra le regole e ciò che i politici di destra ritengono giusto.

Non a caso questo è il tema che il segretario della Lega ha sollevato nel processo che lo vede imputato a Palermo.

Separando il diritto dalla Legge, il governo afferma che la Legge la stabilisce il governo senza essere vincolato né dal sistema normativo del nostro Paese, né da quello europeo o dai patti internazionali, che tutelano diritti e doveri degli individui e dei poteri pubblici. La concezione di fondo della destra populista è che sono loro, in particolare i loro leader, i depositari e gli interpreti della volontà del popolo, considerata come omogenea, che non può essere smentita da nessuno, magistrati compresi. L’equilibrio dei pesi e contrappesi che distingue la democrazia liberale viene forzato e messo in discussione in nome del consenso elettorale, che scioglierebbe la maggioranza dal dovere di sottostare alla legge. La reazione della premier e del suo vice Salvini, che ha organizzato una manifestazione a Palermo contro il suo processo cui hanno partecipato i ministri leghisti in una piazza quasi vuota, allora si spiegano solo evocando un conflitto di potere.

Imporre per sentenza al governo di riprendere prima 4 immigrati minorenni che erano stati trasferiti e poi gli altri 12, ha due conseguenze. La prima è che interferisce nell’esercizio del potere della premier e dell’esecutivo. Si afferma il principio di un limite al potere legale del governo. Quel limite è il diritto democratico.

Ma c’è una seconda conseguenza. La Meloni aveva costruito una narrazione mediatica senza risparmio di mezzi sull’accordo di Tirana. Voleva dimostrare al proprio elettorato che traduce nei fatti le promesse della campagna elettorale, quando la destra aveva lanciato l’idea dei blocchi navali e della chiusura dei confini. Voleva trasformare l’accordo in un modello esportabile. La magistratura, applicando anche le norme europee, ha smontato questa narrazione e invece ha ristretto la sfera del potere dell’esecutivo.

La premier è apparsa così colpita sia nella sua immagine sia nella sua forza e capacità decisionale. Il controllo di legittimità della magistratura, quindi, fa apparire quello della Meloni come un potere non stabilizzato, vale a dire che ha la capacità di ottenere obbedienza e di far eseguire il suo comando, come succede alla Rai o nelle società pubbliche. La Meloni è titolare del potere legale del presidente del Consiglio previsto dalla Costituzione, ma è anche portatrice per i suoi elettori di quello che Weber ha definito un potere carismatico, incentrato sulle caratteristiche personali del leader in cui contano il carisma, il fascino, il valore. La serie di viaggi e riunioni europei organizzati dalla premier era finalizzata a trasformare l’accordo di Tirana in una dimostrazione visibile della centralità della presidente del consiglio in Europa e del suo modello. Questa dimostrazione ora è vanificata sia per l’intervento della magistratura sia perché i grandi paesi, Francia Spagna Germania, non si sono neppure presentati al vertice.

La sentenza, quindi, ha impedito che il potere della destra al governo per ora appaia stabilizzato e possa compiere il passaggio successivo: quello di istituzionalizzarsi, cioè, sia interiorizzato da una parte rilevante della società che ne condivide il significato e l’agire. Questo passaggio al momento sembra interrotto.

La Meloni resta in una posizione incerta: è un capo del governo la cui piena legittimità è messa in discussione da altri poteri dello Stato, dalla opposizione, da una parte dell’opinione pubblica. Il suo potere legale è contenuto, il suo potere carismatico è più evanescente. Sul piano interno lo si osserva nel braccio di ferro in atto sulla legge di bilancio, sul piano esterno nelle stesse ore il presidente Biden non l’ha invitata al vertice europeo con Macron, Starmer e Scholz sull’Ucraina. In pochi giorni da più fronti la Meloni si è vista negare il riconoscimento del suo potere. Sotto attacco c’è la sua identità politica.

La restaurazione della reputazione del potere
La magistratura con le sue decisioni influisce su due dimensioni fondamentali per il potere: le percezioni e le aspettative.

Il potere deriva anche dalle percezioni sociali: la rappresentazione che la società si costruisce della distribuzione del potere contribuisce a determinare i comportamenti. L’immagine sociale del potere della destra al governo ne esce incrinata. Viene revocata in dubbio la loro capacità di agire con correttezza e anche di sapere attuare i propri progetti. Agendo sulle percezioni, le sentenze danneggiano la reputazione del potere, una risorsa fondamentale per il potere effettivo.

Ma lo stesso discorso vale per le aspettative. In una arena politica e sociale ogni attore, dai partiti ai gruppi ai cittadini, agisce in base alle previsioni sulle azioni future dei politici al governo e alla evoluzione della situazione. Il ruolo delle aspettative emerge quando si vede che i comportamenti si modificano in base alle reazioni previste. Le sentenze della magistratura, quindi, unite al mancato appoggio dei grandi paesi europei, hanno determinato una situazione di ambiguità e di incertezza, amplificata dalla conflittualità delle opposizioni. Il fattore aspettative è diventato più imprevedibile, perché è più difficile calcolare cosa il governo potrà davvero fare. Il risultato è che la sua credibilità è lesionata. Per questo la Meloni vuole rispondere con durezza: la sua è una lotta per restaurare la propria reputazione e in questo modo cerca di recuperare il riconoscimento che desidera per il suo ruolo e il suo potere.

E salvaguardare così la propria identità. Questa sembra la vera posta in gioco nella vicenda albanese. C’è però da tenere presente che, per quanto la premier e il suo vice abbiano subito per ora una sconfitta non è detto che questa sia davvero tale presso settori dell’opinione pubblica che vorrebbero un maggior rigore verso l’immigrazione. Per quanto la manovra del governo sia stata sospesa, il messaggio simbolico potrebbe essere arrivato a una parte dell’elettorato che può pensare che il governo ci prova ma le toghe rosse li contrastano. L’opposizione forse dovrebbe considerare questo aspetto e non limitarsi a criticare l’esecutivo, ma immaginare una politica che governi il fenomeno, sia pure in modo differente dalla destra. Del resto, è quello che tentano di fare i leader socialdemocratici Scholz e Starmer e la candidata democratica Harris, che hanno capito che l’immigrazione è un tema decisivo per la destra.

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