Zdeněk Zeman, il bambino che è in ognuno di noi

Perché amo, incondizionatamente, Zemàn

Oscar Buonamano

Quando penso al gioco del calcio penso a Zeman e quando penso a Zeman penso a Eduardo Galeano e a ciò che ha scritto in uno dei libri più belli attorno al calcio, Splendori e miserie del gioco del calcio, «Un giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Sölle: “Come spiegherebbe a un bambino che cosa è la felicità?”. Non glielo spiegherei, rispose, gli darei un pallone per farlo giocare».

Perciò quando penso a Zeman sono felice, perché il suo calcio esprime un’idea felice della vita. Un calcio votato alla ricerca del gol, mutuando e scomodando Roland Barthes, il grado zero della felicità.

Segnare un gol in più dell’avversario, l’archè di tutte le cose per Zeman.

Il gol come momento più alto del calcio, il gol come poesia ce l’ha insegnato Pier Paolo Pasolini. «Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti dei “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere del campionato è sempre il miglior poeta dell’anno».

Il mio amore per Zdeněk Zeman è sbocciato quarant’anni fa, sono stato affascinato e rapito dalle sue idee calcistiche e dal modo di giocare delle sue squadre. Sono stato rapito e affascinato anche da Rinus Michels e Arrigo Sacchi, da Pep Guardiola e Jürgen Klopp, ma di loro non mi sono innamorato.

La stima per l’uomo è cresciuta quando ho conosciuto il suo pensiero sui comportamenti umani legati al mondo dello sport, la sua etica. In quel momento ho capito che quel calcio, il calcio che insegnava ai ragazzi, non era scisso dal suo pensiero sulle cose del mondo e sugli uomini, ma era tutt’uno con la sua idea di mondo.

Ma possono sovrapporsi un’idea di calcio e un’idea di mondo?

Un’intervista dell’agosto 1998 concessa al settimanale L’Espresso quando allenava la Roma, scatena un finimondo nel calcio italiano. Il suo pensiero, ancora una volta, coincideva con la sua visione della vita, con la sua etica.

«A mio parere, la grande popolarità che ha il calcio nel mondo non è dovuta alle farmacie o agli uffici finanziari, bensì al fatto che in ogni piazza, in ogni angolo del mondo c’è un bambino che gioca e si diverte con un pallone tra i piedi. Ma il calcio, oggi, è sempre più un’industria e sempre meno un gioco». E ancora, «Non è vero che non mi piace vincere: mi piace vincere rispettando le regole». Queste sono alcune delle ragioni della mia stima profonda nei suoi confronti. Spingere il cuore oltre l’ostacolo, soprattutto se in gioco c’è la serietà e la dignità delle persone, è la dote in cui più mi riconosco.

C’è anche chi si è spinto oltre l’etica e ha fatto coincidere una visione politica con un’idea di calcio. È stato uno dei più iconici allenatori di calcio di tutti i tempi, l’argentino campione del mondo, César Luis Menotti, che sosteneva «C’è un calcio di sinistra e uno di destra. I più generosi, i più artistici, i più colti sono sempre stati di sinistra. Un calcio aperto, vicino alla gente, l’orgoglio della rappresentatività e dell’appartenenza. Tutto ciò che predico suona più di sinistra che di destra. Poi c’è un altro calcio, a cui non importa della gente ma solo del risultato».

Queste sono alcune delle ragioni del mio amore, incondizionato, per l’uomo Zeman che non va mai separato dall’allenatore di calcio.

Un calcio che si fonda su una rigorosa preparazione atletica, disciplina tattica, rispetto assoluto del pubblico e dell’avversario. I calciatori di Zeman non simulano falli inesistenti, non protestano, coltivano la cultura del lavoro.

Un’idea di calcio, positiva e propositiva, volta a costruire e mai a distruggere.

Tradotto in numeri è un 4-3-3 e ha anche un nome: Zemanlandia. Quattro difensori che giocano a zona con una linea difensiva molto alta e l’applicazione costante della tattica del fuorigioco che impone di avere un portiere che sappia giocare anche con i piedi e funga da libero aggiunto. A centrocampo il centrale è il facitore di gioco. Le due mezzali hanno funzioni diverse, il primo lavora prevalentemente in copertura e in fase di non possesso palla, il secondo cerca con costanza gli inserimenti in avanti. In attacco due esterni in grado di saltare l’uomo e cercare la porta avversaria con continuità e il centravanti, finalizzatore per eccellenza, in grado di attaccare lo spazio e dettare il ritmo delle giocate offensive.

Lo sviluppo di gioco è semplice e fonda la sua ragione d’essere sulla ripetitività dei movimenti in campo e si sviluppa secondo tre direttrici, le due catene laterali di gioco e per vie centrali.

Nelle catene laterali di destra e sinistra, in fase di possesso palla, sono sempre almeno quattro i calciatori coinvolti, il terzino, la mezzala e l’ala. Il quarto calciatore può essere il centrale di centrocampo oppure la seconda ala.

L’attacco per vie centrali prevede un grande movimento del centravanti che deve attaccare la profondità anche per aprire varchi ai compagni di reparto, l’inserimento sistematico delle mezzali, la partecipazione attiva in fase impostazione del portiere e di uno dei due difensori centrali. La distanza tra i reparti è sempre molto corta, i calciatori si muovono all’unisono disegnando geometrie euclidee a grande velocità.

Se consultate la lettera zeta della voce neologismi, enciclopedia Treccani, troverete questa definizione di Zemanlandia, «s. f. Il sistema di gioco, fantasioso e votato all’attacco, ideato e adottato dall’allenatore di calcio boemo Zdeněk Zeman». Ovvero la voce Zemanlandia, associata alla vocazione delle sue squadre di segnare moltissimi gol, non è solo un modo di dire, ma è scritta sul vocabolario. Si dice Zemanlandia e s’intende calcio offensivo, è scritto, nero su bianco, sulle pagine della storia del calcio.

Quando a battere il calcio d’inizio di una partita è una squadra di Zeman, si schierano in otto sulla linea di centrocampo, pronti a convergere tutti verso la porta della squadra avversaria. Sembra di essere tra amici a giocare in spiaggia o in un campetto di periferia come non ce ne sono più. In questo atteggiamento c’è l’essenza del credo zemaniano: divertirsi e far divertire il pubblico perché il calcio è un gioco e non un’industria. «In ogni angolo del mondo c’è un bambino che gioca e si diverte con un pallone tra i piedi», quel bambino, quei bambini, siamo noi.

Per questa ragione è amato da tantissimi tifosi, anche dai tifosi delle squadre avversarie. Dai tifosi della Roma e della Lazio innanzitutto. Dai tifosi del Lecce. Ha fatto sognare e gioire i tifosi del Pescara nella straordinaria stagione della promozione in serie A con i tre moschettieri Insigne, Verratti e Immobile sugli scudi e spina dorsale della nazionale che vinse il campionato europeo in Inghilterra. Idolo assoluto a Foggia con il tridente delle meraviglie, Rambaudi, Baiano e Signori e l’indimenticabile Franco Mancini in porta.

Quando allenava a Foggia, prima del calcio d’inizio della partita, aveva un rituale: prendere una manciata di caramelle da un tifoso e dirigersi verso la panchina. In quel momento partiva il primo coro per lui: «Olè, olè olè olè, Zemàn, Zemàn…». Proprio così con l’accento sulla a, Zemàn.
Le caramelle ci riportano al bambino che è in ognuno di noi e a una struggente poesia del Premio Nobel per la letteratura, Peter Handke. La poesia s’intitola Elogio dell’infanzia e apre il film di Wim Wenders, Il cielo sopra Berlino.

Quando penso al gioco del calcio penso a Zeman e quando penso a Zeman penso a Eduardo Galeano e Peter Handke. Alla sua meravigliosa poesia che inizia così:

«Quando il bambino era bambino,
camminava con le braccia ciondoloni,
voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente
e questa pozzanghera il mare…».


La foto di Zdeněk Zeman che accompagna l’articolo è di Massimo Mucciante

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