La politica al tempo del coronavirus

Gianvito Mastroleo
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Tema gigantesco quello del rapporto tra politica e coronavirus, al quale ci si deve accostare con il massimo rispetto perché investe non solo il presente, che prima o poi passerà, ma il futuro; il quale, a sua volta, chiama in causa come far riscattare l’umanità intera (di questo si tratta, ormai) dalle macerie che ne residueranno e come cercare d’impedire che possa riprodursi.

Perché se è certo che la scienza, come è accaduto per il passato, saprà trovare l’antidoto più efficace (si spera al riparo da ogni tentazione di speculazione economica) non è affatto escluso che eventi simili non possano ripetersi.

Infatti, la prima cosa che intorno a questa terribile realtà viene in mente è che forse in questi ultimi cinquant’anni abbiamo voluto sfidare la natura, che la natura ha accettato la sfida e (temo!) stia dando la sua risposta; che noi tutti, chi più chi meno, ci siamo impossessati di una realtà che non riusciamo a custodire, e che il prezzo maggiore lo stiano pagando non coloro che da tutto questo si sono avvantaggiati, ma le classi più svantaggiate. Per questo alla politica toccano le responsabilità maggiori.

E veniamo ad essa.

E non lo si può fare se non per cenni, anche molto sommari.

Dicendo innanzitutto che a partire dal nostro Paese, che pur non senza contrasti, ritardi o insufficienze, la politica il suo dovere di più impellente necessità lo ha compiuto: a far tempo dal giorno in cui ha recepito il messaggio degli scienziati che per arrestare l’avanzata del contagio occorreva imporre al paese di «restare a casa»: e il Paese, in gran parte, sta rispondendo di sì.

Lo sta facendo l’Italia, si sta facendo ormai in tutto il mondo, anche se una delle più grandi democrazie dell’Occidente, la Gran Bretagna, rischia di pagar care le guasconate del capo del suo governo.

Se si è fronteggiata l’emergenza, con maggiore o minore efficacia e non senza qualche ritardo; fra qualche giorno o settimana si tratterà di fronteggiare l’euforia per lo scampato maggior pericolo e, con la massima necessaria prudenza, per evitare il contagio da ritorno: ed ancora una volta la politica sarà chiamata a fare la sua parte.

A fronte delle capacità personali (più manageriali che politiche) del Presidente del Consiglio, e di alcuni suoi Ministri, di governare il tragico momento (pur non senza ritardi, qualche volta un po’ di confusione della decretazione in successione, forse con intempestivo se non insufficiente  coinvolgimento del Parlamento) quello che si è notato (e non sempre condiviso) è una sorta di frantumazione dell’unitarietà dello Stato e la voglia di protagonismo di alcuni suoi rappresentanti a livello infra-statuale (Regioni e Comuni), volto essenzialmente a marcare la differenza di collocazione politica rispetto al governo centrale. Assieme all’insistente richiesta di coinvolgimento da parte delle minoranze parlamentari, finalizzate più che a concretizzare e a testimoniare al Paese la necessaria unità nazionale, a delegittimare chi oggi è al governo e quindi, a indebolirne più che a rafforzarne, le potenzialità e l’efficacia.

Per non parlare di colei, la onorevole Meloni, per fare nomi e cognomi, che in piena crisi sanitaria e sociale si è avventurata fino a del tutto improbabili elezioni a maggio!

Non solo, ma finanche quando il Parlamento italiano si è riunito per ascoltare le dichiarazioni del Presidente del Consiglio non è riuscito a offrire al Paese la testimonianza di unità e piena consapevolezza che il Paese attendeva.

A differenza del Parlamento americano, onore ad una grande democrazia nonostante il suo Presidente e una brutta campagna elettorale in corso, che in una sola seduta e all’unanimità è riuscito ad approvare interventi di bilancio per un ammontare stratosferico, 2.250 mld di dollari, incurante del possibile beneficiario finale della decisione in termini di voti.

L’America e i suoi cittadini, innanzitutto!

Ma a parte gli esiti non proprio utili, come s’è visto, della personalizzazione della politica, quello che stiamo vivendo ha messo in atto una vera e propria destrutturazione dello Stato, assieme alle conseguenze pratiche della distorsione del concerto originario di Autonomia; e, se possibile, mette ancora più in guardia rispetto al pericolo della «secessione dei ricchi», per riprendere l’efficace definizione di Viesti, di fronte ad accadimenti che al contrario richiedono la massima unità e coesione nazionale, che dal versante meramente etico deve sostanziarsi nell’unitarietà istituzionale.

Tale da richiedere, non senza urgenza, la rivisitazione della Costituzione repubblicana per evitarne lo strattonamento in atto che, certo, non giova al Paese: come, del resto, riconosce lo stesso Presidente Conte nelle sue dichiarazioni.

Al quale Presidente va dato atto del coraggio, quello che spesso è dettato dalla disperazione, d’aver respinto al mittente, insieme alla Spagna, la bozza di accordo predisposta per la riunione dei Capi di Stato e di Governo in via telematica per la fine di questo mese di marzo: nel quale, «ora o mai più», come ha affermato il Presidente della Repubblica Mattarella, si sarebbe dovuto offrire al mondo intero (e lo si deve fare nei prossimi giorni) accanto alla più elevata testimonianza della solidarietà che è nei suoi atti fondativi, sempre declamata, anche se con maggiore o minore convinzione, addirittura la volontà della sua stessa sopravvivenza.

Ora o mai più, ha ammonito con forza il Presidente della Repubblica italiana, che assieme a quel «l’Italia può farcela da sola», gridato dal Presidente del Consiglio, suonano ben più di un semplice grido d’allarme, ma come vero e proprio ultimatum emesso da un Paese nel quale l’idea dell’Europa dei popoli, più che dei soli governi, è stata più in profondità elaborata e che della stessa fu fra i più convinti fondatori.

Insomma anche qui, l’Europa invece di prendere atto, com’è accaduto nell’America e finanche in quella di Trump!, dell’accantonamento della logica del «chi ha contagiato chi» al quale sono stati costretti sia il Presidente USA che Xi Jinping, il capo della Cina, che si sono stesi la mano decidendo di cooperare assieme, a prescindere dal luogo dove il contagio si sia sviluppato, si arrocca nella distinzione tra paesi ricchi (oggi, domani chissà!) del nord e paesi più poveri a vantaggio dei quali ricadrebbe (oggi, ma solo oggi!) il vantaggio dell’emissione di quegli eurobond che sarebbero indispensabili, più che solo ai paesi, all’intera comunità di un grande continente.

E recuperando lo spirito iniziale del suo ideatore e dal quale prende il nome, il segretario di Stato dell’epoca degli Stati Uniti d’America, George Marchall (1880-1952), che prima della composizione dei blocchi era di evitare che povertà e macerie tutt’ora giacenti e diffuse nei singoli paesi spingessero a nuovi conflitti, sempre più mondiali.

Ecco perché il gesto del Pontefice di Roma, dalla desolata ma solo apparentemente deserta Piazza San Pietro, a prescindere dal vissuto religioso o laico di ciascuno, non può non essere accolto e non dovrebbe lasciare insensibile nessuno: che militi nel più sperduto Comune del pianeta o che governi Nazioni importanti come la Germania: «nessuno si salva da solo» ha ammonito Papa Francesco, «ci siamo resi conto di trovarci nella stessa Barca, tutti fragili e disorientati, ma tutti importanti e necessari»: laddove in quel «tutti» pronunciato con fermezza da una Cattedra universale, ci sono greci e olandesi, spagnoli e ungheresi, italiani e tedeschi.

Appunto, italiani e tedeschi!

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