Atipicità o molteplici tipicità? La scuola al tempo del coronavirus

Cesare Preti

Atipicità. Questo è il termine che maggiormente ricorre nelle circolari e nelle note che i dirigenti scolastici, gli uffici scolastici regionali, il Ministero e le organizzazioni sindacali di settore hanno inviato, con una frequenza perfino sospetta, ai docenti ed al personale scolastico tutto nello strano marzo che ci siamo lasciati alle spalle (chi ricorda il Marc Bloch di Una strana sconfitta?).

Atipicità perché bisogna considerare «l’atipicità della sospensione delle attività didattiche in presenza», come scrive il Ministero in una nota dell’otto marzo scorso; ma anche perché è «atipico il dialogo educativo» che i docenti sono invitati a mantenere con le proprie classi, come recita una circolare arrivata non mi ricordo più da quale fonte; ed ancora in quanto «atipica», ai termini del Contratto nazionale della Scuola, è «l’iniziale attivazione di forme di didattica a distanza» che le circostanze hanno indotto a mettere in campo tumultuosamente e con un certo grado di confusione, secondo più comunicazioni delle organizzazioni sindacali (chi ricorda il Saturno e la melanconia di Raymond Klibansky, Erwin Panofsky e Fritz Saxl?).

Ma in tutta questa atipicità cosa rimane della scuola che, invece, in quanto struttura conservativa è fondata su molteplici tipicità? E, soprattutto, cosa rimane della dinamicità, il crescere insieme dell’età dei cambiamenti, propria del tempo scolastico, quel prodursi di una immagine non univoca che ciascun adolescente, come individuo ma anche come parte di un gruppo, ha di sé e che viene continuamente frammentata, contraddetta, cancellata, in un «derealizzarsi», come avrebbe detto Jean Paul Sartre, al grido di «io non mi assomiglio mai», che negli anni della scuola, ed in quelli del liceo in particolare, ognuno vive rispecchiandosi nell’altro? E la cui percezione di mancanza, di un essere dove non si dovrebbe essere senza mai poter tentare di intuire insieme dove sia questo dove, genera l’angoscia parallela di un essere fermato in un immagine stereotipata e sterile, fratturata nella propria essenza, di un essere quindi privo di una ragion d’essere, inquietudine profonda dell’età più bella della vita? (chi ricorda il Paul Nizan di Aden Arabia?).

Ben poco, purtroppo. Chi ha una qualche esperienza della vita in classe, chi vi sia stato dalla parte della cattedra in maniera non episodica, sa che essa è un’aula più o meno grande, un gruppo di corpi mutanti, un insieme di odori manifesti, tanti sguardi convergenti e quasi mai distanti, un cercarsi inespresso e continuamente presente, una manciata di intelligenze ponderanti ed in attesa. Tanti «aphrodisia», come avrebbe detto Michel Foucault, privi di una decifrazione ma colmi d’interrogazione. Che nella ritualizzazione del rapporto tra loro e l’altro (il docente) si attestano su un “liminare” il cui scarto è sufficientemente netto ed assolutamente accettato. Tanto che il confine invisibile ed invalicabile costituito dal “prof” (mai professore), anche se le età non sono poi così distanti segna lo spazio emotivo di un mondo di fronte ad un altro mondo. «Distanziato socialmente» ma mai asettico, anzi veicolo di un contagio (positivo), il cui Ro deve essere sempre ben superiore all’uno ed anzi, se è possibile, a due cifre. Una reazione a catena con andamento esponenziale in grado di produrre una epidemia, il cui cuore nascosto sia indice di una velocità di diffusione almeno pari ai loro tempi di cambiamento (chi ricorda il Barthes di Roland Barthes?).

Ma di fronte allo schermo di un computer, durante una “videolezione”? Tante monadi, nel senso peggiorativo e poco fedele a Leibniz dell’uso comune di questo termine, autoreferenziali e chiuse in se stesse, dotate di «appetizioni» ma non di «appercezioni». Tutto perfettamente sterilizzato, ma proprio per questo ben poco vitale. Un simulacro, o per dirla con Aristotele, un «phantasmata», che danza il ballo macabro della fine di una età (chi ricorda il Giovane Törless di Robert Musil?).

In tutto questo, però, e ostinatamente controcorrente, il soccorso anche emotivo che arriva dall’irriducibile, colorata e chiassosa Cuba: una pattuglia di sanitari pronti a qualsiasi avventura, nel nome dell’uomo e della solidarietà, Un sorriso che riscalda il cuore. Comandante Che Guevara.

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