Tra le primissime misure adottate dal Governo per il contenimento e la gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, l’intervento relativo alla promozione del lavoro da remoto ha inevitabilmente rianimato il dibattito italiano sul “lavoro agile” (anglicismo imperfetto di smart working) già disciplinato nel nostro ordinamento dalla recente legge n. 81 del 2017.
Si tratta del più grande esperimento di lavoro a distanza mai attuato nel nostro Paese: una sperimentazione ovviamente “forzata” che molte aziende ed amministrazioni pubbliche si sono trovate costrette a gestire per la prima volta, mentre invece per altre si è trattato di cogliere l’occasione per mettere in atto modelli organizzativi che avevano già previsto di adottare, e per altre ancora di approfittarne per rafforzare pratiche già in uso.
L’utilizzo dello smart working è andato via via crescendo con il trascorrere delle settimane, man mano che il Governo – non senza una iniziale e comprensibile incertezza e confusione – ha definitivamente preso coscienza della portata complessiva di una crisi sanitaria, che in breve tempo ha comportato gravi conseguenze sulla gestione economica e sociale del Paese, consentendo così un rapido accesso a questo istituto di flessibilità organizzativa del lavoro dipendente, al fine di evitare gli spostamenti e di contenere i contagi.
Il DPCM dell’11 marzo 2020 – confermando l’impianto normativo dei precedenti DPCM emanati il 1° e l’8 marzo – ne ha raccomandato, infatti, il massimo utilizzo da parte delle imprese per le attività che possono essere svolte a domicilio o in modalità a distanza, contestualmente alla decisione di sospendere la quasi totalità delle attività produttive non essenziali e strategiche per il paese. Nel pubblico impiego, una circolare del Dipartimento per la Funzione Pubblica (n. 1/2020) ha addirittura liberalizzato l’istituto, consentendo a tutti i dipendenti della pubblica amministrazione di lavorare da casa usando il proprio computer o dispositivi di interconnessione, purché senza aggravio per la finanza pubblica.
La decretazione emergenziale si è limitata a predisporre una procedura semplificata dello smart working estesa per l’intera durata dello stato di emergenza (il c.d. “caricamento massivo” delle comunicazioni telematiche dei dipendenti coinvolti, che sostituisce così l’accordo individuale previsto dalla normativa di legge), rinviando per il resto alla disciplina esistente.
Ma è proprio così? Le migliaia di lavoratori oggi forzatamente interconnessi con le strutture organizzative delle proprie imprese ed enti datoriali sono realmente impiegate in smart working?
Rinunciando a considerazioni meramente gestionali e sociologiche, pur utili in questa delicata fase che attraversa il Paese, e volendo così affrontare la materia da un punto di vista strettamente tecnico vanno evidenziate alcune criticità nel rinvio legislativo alla disciplina del lavoro agile.
Va chiarito infatti che l’ordinamento italiano prevede due possibilità di lavoro da remoto: lo smart working e il telelavoro, quest’ultimo regolamentato da un Accordo interconfederale del 9 giugno 2004; entrambi non sono riconducibili ad una fattispecie contrattuale, come può esserlo il contratto a termine o il part-time, bensì ad una mera modalità di flessibilità organizzativa del lavoro dipendente, resa possibile con l’ausilio di strumentazioni tecnologiche e con una connessione internet.
Ma la differenza tra i due modelli è notevole: nello smart working le parti del contratto, allo scopo di incrementare la competitività aziendale e di agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, convengono (in sede di contrattazione individuale) che la prestazione lavorativa venga resa in parte all’interno ed in parte all’esterno dei locali aziendali, secondo un principio di alternanza che non è condizionato ad un criterio di prevalenza e dunque senza un preciso vincolo in ordine all’orario e al luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa; il telelavoro costituisce invece una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro dipendente che si avvale delle tecnologie dell’informazione, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa, da una postazione fissa (c.d. telepostazione), che quasi sempre coincide con il domicilio del lavoratore.
Da un primo dato definitorio (che però teorico non è), il telelavoro appare dunque di più immediato impiego nella situazione emergenziale di queste settimane, come pure dimostrerebbe la tendenza in atto in molti paesi europei. Lo smart working implica, infatti, una libertà di scelta del “dove” e del “quando” che oggi è preclusa dalle restrizioni di ordine pubblico: in queste settimane lavorare da casa, per di più negli orari prescritti dall’azienda, è un obbligo…un dato di fatto in cui non c’è spazio per il principio di volontarietà su cui si fonda la disciplina giuridica dello smart working.
Occorre dunque chiarire ai più che lo «smart working emergenziale» che stiamo sperimentando con il coronavirus non è l’istituto disciplinato dalla legge n. 81 del 2017; ne configura al massimo un surrogato, la cui utilità in queste difficilissime giornate è sotto gli occhi di tutti ma che, nella fase che si aprirà una volta superata la pandemia, potrà al massimo costituire il punto di partenza per un dibattito serio e costruttivo su questo importantissimo strumento di flessibilità organizzativa del lavoro dipendente.
Come dichiarato dal prof. Maurizio Del Conte (giuslavorista “padre” della disciplina sullo smart working, e autorevole componente de Il Piacere di Lavorare) «nella norma con cui è stato istituito, lo smart working viene introdotto tramite contratti individuali che oggi in emergenza non sono più necessari, ma con il ritorno alla normalità sarà importante rispristinarli. Lo smart working deve essere negoziato, la strada maestra sono l’accordo aziendale o il regolamento interno».
La crisi offre ovviamente l’occasione per pensare seriamente allo smart working dopo l’emergenza, concentrando l’attenzione su tutto quanto è sin qui mancato: infrastrutture, modelli organizzativi e obbiettivi.
È ipotizzabile che in queste settimane le imprese che hanno concesso lo smart working ne abbiano colto i margini di produttività, e i dipendenti coinvolti i vantaggi di una più ottimale conciliazione dei tempi di vita e di lavoro: a queste istanze occorrerà dare una risposta più convincente, specialmente sul piano dell’accettazione culturale dell’istituto.
Naturalmente occorrerà investire in tecnologia ed infrastrutture: i dati sulla scarsa connessione della rete (ben 11 milioni di italiani ne sono sforniti) e sulla bassissima copertura della banda larga (appena il 24% della popolazione) sono impietosi («Coronavirus, smartworking obbligatorio per tutti ma ad 11 milioni di italiani manca la connessione», Milena Gabbanelli).
E ci sarà bisogno di un profondo cambiamento e di un diverso grado di maturità culturale delle imprese, specie delle piccole e medie (e ancor più nel Mezzogiorno d’Italia), ancora troppo restie ad avallare processi di destrutturazione dei tempi e dei luoghi di lavoro: lo smart working è una forma di flessibilità allo stato puro che sottintende ad un clima di fiducia che valorizza i risultati rispetto ai tempi di effettiva presenza sul posto di lavoro, per cui bisognerà costruire un nuovo paradigma culturale che prescinde da un concetto di eterodirezione in senso stretto con cui si è fin qui stati abituati a ragionare.
Ma principalmente, il valore positivo che saremo in grado di trarre da queste settimane di esperienza empirica del lavoro agile dovrà indurci a riflettere – da un punto di vista più generale – sul fatto che i vantaggi legati alle trasformazioni e ai cambiamenti del lavoro non vanno rincorsi soltanto in condizioni emergenziali, ma invece preventivati ed implementati in progetti di medio e lungo termine.