In questo anno del settantesimo anniversario della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, particolarmente del suo articolo 10 dedicato alla libertà di espressione, questa libertà è succube di un movimento di regressione nei regimi e anche nei nostri paesi dell’Europa continentale, nelle nostre vecchie democrazie. Il 2 settembre è iniziato a Parigi il processo ai complici dei terroristi che, tra il 7 e il 9 gennaio 2015, a sangue freddo hanno massacrato 17 persone. Il loro obiettivo principale è stato quello di eliminare la redazione di Charlie Hebdo, colpevole, a loro pensare, di blasfemia.
Ne hanno ammazzati 12. Lo stesso giorno dell’eccidio centinaia di migliaia di persone si sono radunate in altre città francesi ed europee inneggiando al giornale satirico, tenendo in mano dei cartelli con scritto «Je suis Charlie». Qualche giorno dopo, l’11 gennaio, 50 capi di Stato e di governo hanno partecipato con 1,6 milioni di persone e altri 2,1 milioni nel resto della Francia, al più grande corteo contro il terrorismo che si sia mai svolto a Parigi. Nello stesso momento grandi e piccoli raduni si tenevano in città del mondo intero: Londra, Berlino, Roma, Madrid, Venezia, Bruxelles, Stoccolma, Atene, Beirut, Gerusalemme, Ramallah, Gaza, Montreal, Buenos Aires, Caracas, Sidney, Tokyo, New York, Washington.
Dopo cinque anni ci dobbiamo chiedere: chi è ancora Charlie? Cosa rimane di questi raduni contro gli estremismi e a favore della libertà di espressione? Nel numero del 2 settembre di Charlie Hebdo – che aldilà delle sue caricature, resta uno dei pochissimi giornali d’inchiesta indipendente e senza pubblicità – ha pubblicato i risultati di un sondaggio dell’IFOP che sono scioccanti.
Qualche risultato: il 31% degli intervistati considera che i giornali hanno avuto torto nel pubblicare caricature di Maometto (il 69% delle persone interpellate che si dichiarano musulmani); il 45 % considera che, dal 2015, la libertà di espressione è diminuita nei media tradizionali; il 17% (il 40% delle persone interpellate che si dichiarano musulmani) pensa che le sue convinzioni religiose vengano prima dei valori e delle leggi della Repubblica. Più grave, che tra i giovani tra 15 e 24 anni, la libertà di espressione non sia una priorità. Sono il 28 % (il 38% delle persone interpellate che si dichiarano musulmani) non condannano gli attentati contro i vignettisti di Charlie e sono il 37 % (il 74 % delle persone interpellate che si dichiarano musulmani) antepongono le loro convinzioni religiose ai valori della Repubblica.
Di fatto, dal 2015, osserviamo un vero e proprio declino della libertà di espressione, non solo nel campo della satira, ma anche e soprattutto nei media e nel settore culturale. Molti, soprattutto nei partiti di sinistra (ma non solo) in Europa non vogliono più ridere di niente e soprattutto non di loro stessi, come osserva Philippe Lançon, ferito durante l’attacco a Charlie Hebdo. Molti giornali in tutta Europa, seguendo l’esempio della vigliaccheria del New York Times, licenziano i loro vignettisti editorialisti. Da un punto di vista culturale, i discorsi sociali diventano una battaglia morale, pieni di buoni sentimenti, senza immaginazione, senza sfumature e complessità, ben lontani da ciò a cui ci avevano abituati i grandi intellettuali del nostro recente passato.
Chi non rispetta questo politicamente corretto deve affrontare – sempre di più in Europa e non solo negli USA dove si sconfina nell’isteria – la Cancel Culture cioè la damnatio memorie dei romani e vedere la propria carriera rovinata per atti giudicati dai nuovi censori. Devono evitare l’appropriazione culturale, il woke (rintracciamento sistematico dei privilegi dei bianchi), le triggers warnings (cioè l’avvertire gli studenti di passaggi considerati traumatici nella letteratura), gli safe spaces (spazi riservati a una comunità, femmine, neri, musulmani, LGTB, ecc.).
L’autocensura viene a rinforzare la censura abituale dei poteri politici, militari, economici, delle lobbies, delle comunità e delle religioni. Come dice Richard Malka, l’avvocato di Charlie Hebdo, i creatori di contenuti sono così spaventati che ogni volta che parlano della pioggia, è solo per dire che è bagnata. Molti governi, anche in Europa non esitano più a riscrivere «il loro romanzo nazionale». Non siamo lontani da un movimento generale di purificazione dell’arte e della storia a scapito della realtà e della verità storica. Sembra che la storia del Novecento sia stata dimenticata.
Allora si, difendere la libertà di espressione, la satira, il diritto all’irriverenza diventa una necessità vitale per le nostre democrazie e per le libertà individuali, per quella di pensare, di criticare, semplicemente di vivere. La vignetta satirica è il barometro della democrazia e delle libertà. Se non bastona, se non provoca la riflessione (e il ridere) sullo stato del mondo, sui potenti, su se stesso, se non disturba allora è solo acqua tiepida e diventa inutile.
Per questi motivi che il Centro Librexpression/Libex della Fondazione Giuseppe Di Vagno (1889-1921) ha organizzato un concorso di vignette satiriche sul tema dei pericoli che deve affrontare la libertà di espressione e la satira politica. Una giuria internazionale composta da vignettisti editorialisti di fama internazionale ha selezionato 55 vignette presentate in una mostra all’occasione del festival Lector In Fabula a Conversano (BA). E siamo orgogliosi di presentare in anteprima su Pagina21 le dieci migliori vignette.