Mordo Nahum e Ulisse, onomastica di Primo Levi

Giusi Baldissone

Ne La Tregua di Primo Levi il terzo capitolo, Il greco, è dedicato all’incontro con Mordo Nahum. Prima ancora di assistere alla nascita del cosiddetto negazionismo, Levi si pone il problema di fondare le ricerche storiche future, sapendo che la realtà del Lager apparirà incredibile ai posteri.

Colui che torna dopo quell’esperienza ha bisogno di riacquistare il senso della direzione, del contesto, del proprio essere nel mondo prima di farvi ritorno. L’incertezza del titolo ne La Tregua esprime proprio la situazione del reduce. La proposta originaria era Vento alto, da Levi indicata nel contratto editoriale, poi cambiata con l’aggiunta di un sottotitolo esplicativo, La tregua. Il ritorno e l’idea di Vento alto è spiegata proprio nel terzo capitolo.

«In quei giorni e in quei luoghi, poco dopo il passaggio del fronte, un vento alto spirava sulla faccia della terra. Il mondo intorno a noi sembrava ritornato al caos primigenio, e brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi; e ciascuno di essi si agitava, in moti ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera, come poeticamente si narra delle particelle dei quattro elementi nelle cosmogonie degli antichi». «Di seicentocinquanta, quanti eravamo partiti, ritornavamo in tre. E quanto avevamo perduto, in quei venti mesi? Che cosa avremmo ritrovato a casa? Quanto di noi stessi era stato eroso, spento? I mesi or ora trascorsi, pur duri, di vagabondaggio ai margini della civiltà, ci apparivano adesso come una tregua, una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irripetibile del destino».

«Guerra è sempre!», ammonisce il greco Mordo Nahum ne La Tregua. Dopo la prigionia e la malattia Levi trova il primo movimento verso l’esterno proprio nell’incontro con questo personaggio, presentato subito come il deus ex machina dell’avventura di libertà, in un capoverso che rivela un profondo senso di gioia: «Non posso dire di ricordare esattamente come e quando il mio greco scaturì dal nulla». Il capitolo di Mordo Nahum è il più ampio e costituisce il filo di un discorso poi ricorrente.

In Verso nord Mordo Nahum riapparirà. Le caratteristiche che ne fanno un personaggio tragico ma anche equilibratore sono descritte fin dal principio. Come per i quattro soldati russi che arrivano nel Campo grande, ma anche per l’altro, gentile e incomprensibile, che li scorta verso la ferrovia, l’apparizione ha qualcosa di teatrale: «il mio greco scaturì dal nulla». L’adesione di Levi è totale: «Si chiamava Mordo Nahum, e a prima vista non presentava nulla di notevole, salvo le scarpe (di cuoio, quasi nuove) […] e il sacco che portava sul dorso. […] Oltre alla sua lingua, parlava spagnolo (come tutti gli ebrei di Salonicco), francese, un italiano stentato ma di buon accento, e, seppi poi, il turco, il bulgaro e un po’ di albanese. Aveva quarant’anni: era di statura piuttosto alta, ma camminava curvo, con la testa in avanti come i miopi».

In poche righe il ritratto si ribalta: dal «nulla di notevole» del primo sguardo si passa rapidamente al colpo d’occhio che impressiona e all’elencazione delle lingue conosciute che ne fanno un personaggio notevole: «Rosso di pelo e di pelle, aveva grossi occhi scialbi ed acquosi ed un gran naso ricurvo, il che conferiva all’intera sua persona un aspetto insieme rapace ed impedito, quasi di uccello notturno sorpreso dalla luce, o di pesce da preda fuori dal suo naturale elemento. Era convalescente di una malattia imprecisata, che gli aveva provocato accessi di febbre altissima, sfibrante […] Pur senza sentirci particolarmente attirati l’uno dall’altro, eravamo avvicinati dalle due lingue in comune, e dal fatto di essere i soli due mediterranei del piccolo gruppo». Quando il viaggio si rivela pieno di intoppi, di errori e disagi, tra cui il freddo, l’alleanza col greco appare preziosa: quelli di Salonicco possiedono raffinate abilità mercantili e se la sanno cavare in ogni circostanza, come tutti sapevano ad Auschwitz».

Il treno riparte e si arriva al campo della Croce rossa polacca a Szczakowa, nei pressi di Cracovia, «con un meraviglioso servizio di cucina calda. […]. Il Lager a rovescio». Quando il treno va in avaria, Levi e Mordo Nahum prendono la decisione che definitivamente li allontana dalla condizione di prigionieri: «Non eravamo più servi, non eravamo più protetti, eravamo usciti di tutela. Per noi suonava l’ora della prova». Così i due vanno insieme alla ricerca del «Consorzio Civile»: la maiuscola ne sottolinea ironicamente la problematicità. Ciò che colpisce nella narrazione di quest’avventura da liberi è l’allegria sottesa all’apparente desolazione. L’ingresso a Cracovia fa capire che le regole sono saltate, nella caserma in cui sono accolti molti italiani si può entrare solo offrendo una scatoletta con carne di maiale alla sentinella polacca di guardia. Il greco è accolto dagli italiani in modo festoso: «il mio non era un greco qualunque, era visibilmente un maestro, un’autorità, un supergreco. In pochi minuti di conversazione aveva compiuto un miracolo, aveva creato un’atmosfera».

Le scarpe sono una priorità, senza scarpe non puoi procurarti il cibo; Levi dice che la guerra è finita: «Guerra è sempre, – rispose memorabilmente Mordo Nahum». Dei suoi due anni di Auschwitz non gli parlò mai. Gli parla invece della sua vita da mercante, di che cosa significhi conoscere, verità, giustizia e grandi cose greche. Quando partono per Katowice sanno che il viaggio sarà difficile, con ponti e ferrovie crollate. In una delle fermate Levi incontra un avvocato polacco che parla diverse lingue e per la prima volta desidera spiegare a qualcuno che cosa è stato Auschwitz, perché tutti lo sappiano. Ma si accorge che la traduzione delle sue parole fatta agli altri non è fedele (l’avvocato lo descrive non come un ebreo ma come un prigioniero politico) e gliene chiede conto.

La risposta, imbarazzata, è quella di Mordo Nahum: «C’est mieux pour vous: La guerre n’est pas finie». In questo momento l’ex prigioniero si sente vecchio e stanco nel constatare che anche essere ascoltati, dopo il ritorno, sarà un’impresa difficile, come tutti sapevano negli incubi notturni del Lager. La separazione da Mordo Nahum pare definitiva ma egli apparirà altre due volte: nella prima un’aura dantesca lo accompagna («uscì dalla schiera»): «lo vidi in maggio, nei giorni gloriosi e turbolenti della fine della guerra, quando tutti i greci di Katowice, un centinaio, uomini e donne, sfilarono cantando davanti al nostro campo, diretti alla stazione: partivano per la patria, per la casa. In testa alla colonna era lui, Mordo Nahum, signore fra i greci, e reggeva il vessillo bianco-celeste: ma lo depose quando mi vide, uscì dalla schiera per salutarmi […], e con gesto inconsueto estrasse dal famoso sacco un dono: un paio di pantaloni, del tipo usato in Auschwitz negli ultimi mesi […] poi scomparve. Ma doveva ricomparire un’altra volta, molti mesi più tardi, sul più improbabile dei fondali e nella più inaspettata delle incarnazioni».

La scelta lessicale sancisce l’aura dantesca che accompagna la sua scrittura, quella di Se questo è un uomo, in cui Dante gli apparve come linguaggio di possibile salvezza, col canto di Ulisse per il Pikolo.


I partigiani angoscianti della poesia Partigia hanno solo soprannomi, nomi di battaglia, ed è già molto per la possibilità di identificazione: Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse. Il soprannome si ripete, più preciso e ancora angosciante, in Epigrafe, dove lo sventurato «Micca partigiano» recita nella scritta: «Spento dai miei compagni per mia non lieve colpa».

La cancellazione o velatura del nome nel passaggio dalla narrativa alla poesia si ripete sistematicamente, per dare un senso più simbolico ai personaggi, per universalizzare una condizione: finalità proprie della poesia. A fronte di una sorta di meccanismo di cancellazione dei nomi di persone realmente esistite si nota una certa frequenza di nomi mitici: Minosse, Ulisse, Lilìt, Adamo, Aracne, Isaia, Musa, Sansone, Delila, Acheronte, Stige; una presenza di personaggi storici, scienziati, politici, scrittori, letti in chiave simbolica: Huayna Capac, Huascar, Atahualpa, Empedocle, Plutarco, Nietzsche, Dante, Coleridge, Annibale, Galileo, Galvani, Spallanzani, Giotto.

Sono invece ben indicati, due per tutti, i nomi di coloro che si macchiarono direttamente o indirettamente dei crimini legati allo sterminio: Eichmann, Alex Zink.

L’angoscia dello scrittore si esprime in Il superstite (Ad ora incerta): «Indietro, via di qui, gente sommersa, / Andate. Non ho soppiantato nessuno, / Non ho usurpato il pane di nessuno, / Nessuno è morto in vece mia. Nessuno. / Ritornate alla vostra nebbia. / Non è mia colpa se vivo e respiro/ E mangio e bevo e dormo e vesto panni». Ecco finalmente detto ciò che brucia il cuore: il rimorso del superstite, di tutti i superstiti, coincide con la condizione stessa di superstiti. Il detto è in forma di negazione, e vela il non detto con la triplice anafora «non» e la quadruplice «nessuno».

Negazione freudiana: si nega proprio ciò che costituisce il rovello, l’oggetto del rimorso e del senso di colpa. Negazione affidata alla poesia, che stabilisce un nesso indiscutibile tra poesia e verità, ma anche un nesso inscindibile tra il «Nessuno» dei sommersi e il superstite poeta Primo Levi, che di Ulisse/Nessuno ha fatto il suo simulacro in più di un’occasione.

Tragico nodo d’identità, quella negazione che si fa nome, Nessuno, continua a bruciare il cuore e a sconvolgere il sonno. In realtà Levi dichiara, nel saggio Un uomo da nulla (La ricerca delle radici) che proprio Ulisse costituisce per lui un punto di riferimento, una mitica radice in cui riconosce anche la propria identità. Per questo preferisce l’Odissea all’Iliade, per la forza di Ulisse nel superare tutte le avversità con la propria intelligenza, contro la brutalità e la rozza violenza del ciclope Polifemo, a cui dopo l’inganno di Nessuno tiene a rivelare con orgoglio la propria identità: lui è Ulisse, colui che con l’astuzia e l’aiuto dei compagni è uscito dalla caverna insieme a loro sconfiggendo il gigante Polifemo; il suo nome, Ulisse, pronunciato ad alta voce diviene un simbolo dell’intelligenza umana.

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