Nicola Lagioia: un’idea di città

Oscar Buonamano

La città è quel luogo dove un bambino, attraversandola, scopre cosa vuol fare da grande.
Louis Khan

Ho iniziato a leggere La città dei vivi sabato pomeriggio alle 15:30 e mi sono fermato alle 20:30. Dopo cena un film, L’inganno perfetto, subito dopo ho letto ancora qualche pagina del libro e mi sono addormentato. In tutto 294 pagine.

L’inganno perfetto è un film apparentemente distante dal libro di Nicola Lagioia, in realtà molto vicino. Due ottuagenari si incontrano grazie a un sito di appuntamenti in rete e da qui parte tutto. Una narrazione in cui il passato, la storia di ognuno dei due protagonisti, è la ragione per cui Helen Mirren cerca Ian McKellen. Il film, che si regge sulla magistrale interpretazione dei due attori (la prima vincitrice di un premio Oscar, il secondo uno dei migliori interpreti della commedia shakespeariana), fonda la sua ragion d’essere su una questione successa molti anni prima del loro ultimo incontro. Questo accadimento, lo si scoprirà alla fine del film, darà il via al lavorìo nella testa della protagonista che trova pace solo quando ha di fronte colui che ha generato tutto.

Il libro di Lagioia non è solo questo, ovviamente, ma è anche questo.

Ho ripreso la lettura domenica mattina e l’ho terminata dopo una breve pausa per il pranzo alle 18:00.

Mi godo la lettura nonostante la crudezza di alcune pagine e la tonalità complessiva dell’opera.

Per queste ragioni la notte tra sabato e domenica ho dormito poco e male. Non riuscivo a non pensare alla storia che La Città dei vivi racconta. Alla vittima e ai carnefici. Alle vittime.

Ho pensato a come sia cambiata la fauna umana che popola le città e che partecipa alle feste. A come si nutra sempre più di droghe. Alle carenze affettive che scavano solchi profondi e creano ferite che non si rimarginano mai. A come sia cambiato l’approccio al sesso. Ai sessi.

A come è cambiata la vita di ognuno di noi. A come è destinata a cambiare ancora nei prossimi anni.

«Nessun essere umano è all’altezza delle tragedie che lo colpiscono. Gli esseri umani sono imprecisi. Le tragedie, pezzi unici e perfetti, sembrano intagliate ogni volta dalle mani di un dio», siamo a pagina 43 e questo potrebbe essere l’incipit del libro. Lo riassume bene perché in ogni singola affermazione c’è la storia che viene raccontata. Una storia realmente accaduta e, come scrive lo stesso autore, «frutto di una lunga attività di documentazione che comprende atti giudiziari con perizie, intercettazioni, sentenze ora definitive, contributi audio e video, dichiarazioni ufficiali, interviste».

Un secondo pilastro della costruzione narratologica di questo libro è la città. Nicola Lagioia è un attento osservatore della realtà urbana e delle sue trasformazioni, ne ha dato prova nei suoi due precedenti libri, Riportando tutto a casa e La ferocia.

Siamo a Bari, la città non è la stessa de La Città dei Vivi,  ma le somiglia nel disfacimento che ha accompagnato e accompagna le dinamiche urbane.

«Così, camminando sotto il sole di maggio, scopre che il suo mondo rappresenta un’infinitesima porzione di quell’aperta vastità cittadina che è Bari negli anni Ottanta. Chi l’avrebbe detto? Solo spostandosi di qualche chilometro ad est, le boutique scompaiono del tutto, i palazzi pieni di stucco cedono il posto all’imponente architettura del ventennio che a sua volta si disperde sui primi marciapiedi in stato di rovina e sull’asfalto maculato di fili verdi e gialli. Mezz’ora fa era un asfalto servizievole, adesso è un ribollente manto nero che si dilata in ogni direzione sotto un sole che picchia in verticale sulla testa […] è a cinque chilometri da casa sua ma ha l’impressione di avanzare su una distesa marziale, di attraversare un territorio in cui è stato quando esserci per lui non era ancora concepibile»

Nel secondo libro, che gli è valso il Premio Strega, descrive magistralmente la perdita di senso delle categorie novecentesche centro e periferia o la separazione non più appropriata tra città e campagna, individuando alcuni dei nuovi caratteri identitari, per certi versi i nuovi campanili.

«Dopo aver girato a vuoto per mezz’ora, imboccò il ponte che separava il centro dalla zona residenziale. Dieci minuti dopo vide la torre dell’Ikea e si tranquillizzò. Capì di essere sulla statale prima che la barriera di cemento separasse i sensi di marcia».

La perdita di senso legata all’identità plurima dei luoghi, dei punti canonici di riferimento, sostituiti dai totem del capitalismo e della globalizzazione, avvolge e coinvolge anche le comunità che quei territori abitano. Uno spaesamento al quale facciamo fatica ad abituarci. Siamo parte di un tutto sempre più interconneso, ogni frazione è legata a quella successiva. Costituiamo e siamo parte di una Rete che avvolge tutto il Pianeta, divenuto di nuovo sferico, e che determina una lettura del mondo non più a partire appunto dalle città, ma dai nodi che queste rappresentano nella costruzione dei territori e del tutto. Ogni cosa che accade in un nodo si diffonde rapidamente e può influenzare prima e più di prima la vita che si svolge in altri nodi.

Lo spiega bene il geografo Franco Farinelli, «La globalizzazione significa che il modello del mondo non è più riassumibile nello schema centro periferia. Questo è vero per la mappa, all’interno dello Stato, o anche nei rapporti interstatali. Se il mondo non è più una tavola, una mappa, uno Stato, geometricamente definito e organizzato, ma diventa funzionalmente ciò che si è sempre saputo che fosse ma che non si è mai avuto il coraggio di affrontare, una sfera, noi non abbiamo più un centro e una periferia. Ovvero ci sono, ma non significano più niente. Abbiamo due poli».

E se è vero che non c’è più distinzione tra centro e periferia, non esiste nemmeno più una netta demarcazione tra città e campagna. Tutto è commisto, tutto, apparentemente, confuso.

«La verità è che Roma non ha confini certi. Superato il Vaticano, si viaggia sull’Aurelia. Dopo qualche minuto la luce si fa chiara, le abitazioni si diradano, la vegetazione prende il sopravvento sull’opera dell’uomo. Superato il raccordo ci sono volpi, upupe, cinghiali. In molti, a questo punto, credono che Roma sia finita. Eppure piano piano la città si riforma. Adesso qualche casa isolata. Poi i grossi condomini. Di nuovo pini e prati incolti. Superato anche l’incrocio con via Boccea, l’orizzonte si abbassa. Il cielo è vasto. Gruppi di pecore brucano nei pascoli oltre i recinti a bordo strada. Compaiono i primi casali. Ogni tanto un’azienda vinicola. Via della Storta. Al 248 c’è un vecchio distributore di benzina. Dopo mezzo chilometro, spicca una costruzione di mattoni rossi protetta da una cancellata».

Questo è il percorso che si deve compiere per arrivare a casa della vittima, Luca Varani. Oltre le borgate, in una terra di nessuno che non è città e non è ancora campagna. Non è periferia. È oltre come la storia che Lagioia racconta.

La storia della morte di Luca Varani, torturato e ucciso in un appartamento del Collatino a Roma, «nella notte, sembrava un gigantesco alveare di cemento abbandonato su un pianeta lontano». E la storia di Marco Prato e Manuel Foffo i suoi carnefici. Un episodio considerato dai più di cronaca nera e che invece Lagioia restituisce ad una dimensione che gli è più propria, il malessere diffuso che attraversa la nostra società e noi stessi. Una perdita di senso sulla quale non si riflette a sufficienza. Sulla quale non si interviene. Nessuno interviene.

Una condizione in cui pur non essendoci più le differenza tra centro e periferia e tra città e campagna permangono invece le differenze sociali e culturali tra le persone che abitano questi luoghi. Nel Novecento si sarebbe detto permane la differenza di classe sociale di appartenenza. La sensazione che la globalizzazione tenda ad annullare le differenze e a rendere tutto e tutti più simili, in realtà accade esattamente il contrario: tende ad aumentare la divaricazione tra chi sa e chi non sa. Tra chi è consapevole e chi non lo è. Tra chi ha e chi non ha.

In questo caos quasi predeterminato avanza e s’impone sempre più un bisogno impellente di protagonismo. Non più «in futuro tutti saranno famosi per 15 minuti», concetto attribuito a Andy Wharol, ma il bisogno di essere sempre al centro dell’attenzione così come i social networks consentono e promettono a tutti.

La responsabilità delle azioni è sempre personale e questo caso che Lagioia illustra magistralmente lo dimostra, ma ignorare o non leggere il contesto e le condizioni al contorno in cui tutto ciò avviene non aiuta a comprendere i fenomeni e le azioni che ne scaturiscono per quanto efferate esse siano.

La letteratura del resto, tra le altre cose, serve proprio a questo. A farci comprende meglio il mondo in cui viviamo o quello in cui vorremo vivere. A farci comprendere meglio la natura umana. Il modo con cui intessiamo relazioni. I sentimenti. Gli amori. La vita. La morte.

In questa ottica, ma non solo, il libro di Nicola Lagioia è un libro magnifico.

Un libro che contribuisce a stabilire una relazione con noi stessi, con la parte più nascosta e oscura di noi stessi e ci fa vedere in faccia il male. Qualcosa di noi che non sempre riusciamo a comprendere, con la quale non sempre riusciamo a dialogare.

«La realtà è troppo brutale perché la mente umana possa sopportarla. La mente umana è strutturata proprio per arginarla, la realtà. Riorganizza il mistero terribile del tempo. Occulta il pensiero della morte. Presta un nome alle nude cose, poi le trasforma in simboli».

Non risparmia nulla al lettore. Le nove pagine in cui descrive il barbaro assassinio sono dure da accettare, ma non colgono impreparato chi legge. Ci si arriva per gradi, quando ormai si conoscono tutti i protagonisti e i contesti da cui provengono. Le loro abitudini, gli amici, i parenti, i genitori. La maggior parte di loro sfila davanti ai nostri occhi per raccontare episodi anche marginali ma che servono e nutrono la narrazione di particolari che sono utili per conoscere di più il contesto, i contesti, e prepararci all’epilogo.

Si arriva a quelle nove pagine dopo aver vissuto, attimo per attimo, nell’appartamento al Collatino i tre giorni che precedono l’omicidio. Tra vodka e cocaina. Sesso e disordine. Caos.

«Bisognerebbe amare la vittima senza bisogno di sapere nulla di lei. Bisognerebbe sapere molto del carnefice per capire che la distanza che ci separa da lui è minore di quanto crediamo. Questo secondo movimento s’impara, è frutto di un’educazione. Il primo è assai più misterioso».

Lagioia segue alla perfezione il filo del suo ragionamento e molto fa sapere dei carnefici. Li colloca in modo preciso, netto. È scrupoloso e ci rende partecipi della fatica e dello studio necessario per conoscere i fatti e le opinioni. Non è ambiguo, separa e rende intelligibili i fatti dalle opinioni.

«La natura umana è sensibile all’autoinganno. Quante volte, per realizzare un nostro desiderio, abbiamo bisogno di fraintendere i desideri altrui? E in quanti casi usiamo delle parole pronunciate da un amico, da un genitore, da un amante, per sentirci autorizzati a fare ciò che in quelle parole non era affatto contemplato? Le parole sono ambigue, sfuggenti, risuonano in modo diverso a seconda della materia contro cui cozziamo. E poiché – cugine della stregoneria – le parole spesso producono fatti, è importante capire di quali aspettative o malintesi sono gravide al momento di attraversare quel confine fatale».

Il confine fatale è «il punto di rottura a partire dal quale tutto può succedere» e l’autore ci conduce lì, sul margine del precipizio. Ci offre tutte le coordinate per conoscere e comprendere gli accadimenti, lascia, ovviamente, a noi il giudizio finale.

«L’impatto con il dolore riconsegna la maggior parte di noi a una sorta di innocenza originaria. A un certo punto non abbiamo più difese, né risorse, non c’è assolutamente nulla che possiamo fare per evitare il peggio, e così, insieme, con le difese, crollano i privilegi, le strategie, l’appartenenza di classe, la retorica, lasciando intravedere la fragile nudità di specie che ci accomuna tutti».

Un libro magnifico costruito con una scrittura che non cerca virtuosismi, non più e non qui, ma che persegue il suo obiettivo con semplicità e linearità di espressione. Cerca e trova la sua ragion d’essere in un raccontare sempre lineare, contrappunto al disordine, mentale e fisico, dei protagonisti e della città.

Una scrittura che si illumina quando parla della vittima, quando ne descrive, per la prima volta, la sua conformazione fisica. «Se la scena si fosse svolta a Milano, dove la gente è troppo concentrata sul lavoro, o a Torino, dove parlare con gli estranei può risultare sconveniente, il viaggiatore non avrebbe avuto modo di memorizzare i lineamenti del ragazzo, i grandi occhi neri, le belle labbra, il volto armonioso e gentile tra luce e ombra che ai frequentatori di San Luigi dei Francesi, montato da Caravaggio sulla struttura fisica di un angelo, non sarebbe parso nuovo».

Fa ricorso a Caravaggio, ad uno degli artisti che ha contribuito a definire il canone stesso della bellezza. E poi, dopo aver descritto il male e la condizione a cui può ridursi l’uomo quando non è libero ma schiavo delle sue debolezze, apre le porte alla speranza e alla luce. Di nuovo.

«Dalle finestre aperte il panorama era stupendo. Vedevamo la campagna, i grandi pini, i pascoli […] tra poco il sole sarebbe tramontato. Il caldo avrebbe fatto posto alla placida sera estiva. Noi fermi a chiacchierare mentre il cielo stellato si impossessava della scena, rivelato ai nostri sguardi dai complicati principî di rotazione e rivoluzione, la gigantesca macchina che ci fa nascere e ci riduce in polvere».


Nicola Lagioia, La città dei vivi, Einaudi, Torino 2020

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