Antonio Bassolino irrompe in una Napoli immobile nel suo continuo ribollire. Con un tempismo da navigato uomo politico qual è, sabato 13 febbraio ha annunciato su Facebook la candidatura a sindaco, appena un’ora e una manciata di minuti dopo il giuramento al Quirinale di Mario Draghi e della sua squadra di ministri.
Mentre gli stati maggiori dei partiti romani infatti prendevano coscienza del loro scarso peso nel «governo dei contrari», lui ne certificava l’inconsistenza prendendo in contropiede quel partito di cui fu tra i fondatori, il Pd che oggi non lo vorrebbe più in campo. «Sento il dovere di mettermi al servizio della città: con la passione di sempre e con la testa rivolta in avanti. Napoli prima di tutto, prima di ogni interesse di parte», ha scritto su Fb.
Bassolino, classe 1947, è già stato sindaco dal dicembre 1993 al marzo 2000 quando lasciò il Comune per diventare presidente della Regione Campania nei dieci anni successivi. Sempre sul palcoscenico della politica, un consenso elettorale ampio accompagnato da risultati agli estremi: dalla gloria del «Rinascimento napoletano» degli anni ’90 alla mortificazione della cartolina del Golfo sfregiata dalla “monnezza” sul finire del suo mandato regionale. Insieme a una raffica di procedimenti giudiziari: 19, tutti terminati con assoluzioni nei processi o proscioglimenti nel corso delle inchieste. Ultima piena assoluzione pochi mesi fa proprio per una vicenda legata alla gestione dei rifiuti. Era l’ultimo impedimento, dal suo punto di vista, per rientrare alla grande sulla scena.
Da undici anni l’ex sindaco non ricopre più incarichi pubblici. Appassionato della montagna, dove trascorre le vacanze, ha scritto un paio di libri tra cui Le Dolomiti di Napoli in cui racconta le scalate ardite e le tumultuose discese di una vita; ha ragionato sui clamorosi errori del passato; ha creato la Fondazione Sudd (sì, proprio con due d); ha continuato a tessere una fitta rete di relazioni e alleanze. Già cinque anni fa, nel 2016, epoca renziana, si era riproposto come possibile candidato. Si sottopose alle primarie, fu sconfitto per una manciata di voti dalla deputata Valeria Valente, denunciò brogli testimoniati dai video pubblicati sui siti dei giornali, non vollero dargli ascolto né a Napoli né a Roma. Allora non ruppe con il suo partito, prevalse il senso di appartenenza e un’antica disciplina maturata nel vecchio Pci. Con la Valente però il Pd non arrivò neppure al ballottaggio.
Ora a Napoli si sta chiudendo il decennio di Luigi De Magistris. Nel caos, come spesso capita nella storia della sfortunata e magnifica capitale del Sud. L’ex pm aveva sbaragliato destra e sinistra conquistando il Municipio con la fama di uomo d’ordine, tutto d’un pezzo, «Giggino ’a manetta».
Ma negli anni si è trasformato nell’artefice della paralisi amministrativa. Tanti proclami, azioni zero. De Magistris ha goduto nell’identificarsi con Masaniello, anzi nel masaniellismo, nella degradazione di un mito, nell’abuso di un’immagine storica per legittimare il presente, come ha acutamente osservato lo storico Aurelio Musi in un suo recente saggio.
Nelle sue innumerevoli comparsate tv il primo cittadino ha goduto nell’esibirsi dietro una scrivania invasa da una quantità di oggetti inutili per il lavoro di un amministratore pubblico. Corni di dimensione e foggia varia, foto di Che Guevara, statuine dell’immaginifico Pantheon vesuviano, Totò e Maradona, paccottiglia che variava puntata dopo puntata. Un cult la scrivania, se ne sono occupati tanti commentatori, perché in quella studiata ammuina si è condensato il disordine programmatico e operativo della sua sindacatura, giunta al termine con un debito fuori controllo – 2,6 miliardi – il triplo del 2011. Nei fatti il Comune è in default. La città cade a pezzi. Letteralmente, per mancanza di manutenzione chiuse un’infinità di strade, chiese, monumenti, parchi pubblici. Nonostante tutto, De Magistris tenta una nuova avventura, in Calabria prova a scalare la Regione. A Napoli lascia in eredità, come candidata sindaca, l’assessora Alessandra Clemente, da sette anni in giunta.
E il Pd? Debole nel radicamento sociale, inconsistente nell’opposizione a De Magistris, da mesi sta provando a tessere un’alleanza elettorale con il Movimento 5 Stelle. L’obiettivo: riproporre anche a Napoli l’alleanza di governo del Conte bis. Lo schema è saltato con la dissoluzione dell’esecutivo giallo-rosa. Si spiega così l’annuncio solitario di Bassolino un’ora dopo il giuramento di Draghi.
In politica il vuoto non è consentito. L’ex sindaco si è incuneato nello smarrimento del Pd e nelle lacerazioni dei cinquestelle. Solo per un’incomprensibile supponenza il gruppo dirigente dem si è ostinato a non vedere quel che era sotto gli occhi dei napoletani: da ben prima dell’estate 2020 Antonio Bassolino era in campagna elettorale. I suoi profili Facebook e Twitter raccontano il degrado urbano, la partecipazione a manifestazioni operaie, gli incontri con semplici cittadini. Un misto di vecchia e nuova comunicazione politica, una militanza 2.0. Infine su la Repubblica, nel giorno della candidatura, un intervento dedicato al mondo del lavoro, indicato come il blocco sociale da cui deve ripartire un partito di sinistra. Un manifesto politico.
Preso in contropiede il Pd si appella ora all’unità. In questi mesi di incertezza ha speso sui giornali, senza mai avere la lucidità di ufficializzarne la candidatura, due nomi di valore, due ministri del Conte bis: Enzo Amendola (Affari europei) e Gaetano Manfredi ((Università e ricerca). Nella speranza di tenerli coperti per non bruciarli, il Pd ha lasciato che ne parlasse solo la stampa. Nella faticosa ricerca di un ipotetico «campo largo». Ora però rimasti senza dicastero Amendola e Manfredi sono esposti a un pregiudizio immeritato: se uno dei due dovesse accettare la sfida, correrebbe il rischio di essere percepito come un politico in cerca di una poltrona per la poltrona. Sebbene quella di primo cittadino di Napoli sia scomodissima.
Intanto lo scalatore Bassolino si arrampica verso la cima mentre gli sherpa del Pd arrancano indietro.