La retorica elitaria che ha accolto il «governo dei migliori» è speculare a un altro espediente retorico, quello populista e banalizzante dell’«uno vale uno». Due forme estreme, opposte, di insofferenza verso la democrazia rappresentativa basata sul consenso e la mediazione, ma innanzitutto sul conflitto sociale e la contrapposizione di obiettivi chiari e netti.
La nascita dell’esecutivo guidato da Mario Draghi, votato da un’ampia maggioranza parlamentare, ha creato l’illusione di una momentanea sospensione della politica costretta a lasciare il passo ai migliori, appunto, ai competenti. Dopo i dilettanti allo sbaraglio finalmente arrivano i tecnocrati. Ma come sempre la realtà è meno banale di quel che ci piacerebbe apparisse.
Innanzitutto Draghi è un politico esperto, altrimenti non avrebbe potuto resistere per ben otto anni al vertice della Banca centrale europea, confrontarsi e scontrarsi con i 28 capi di Stato o di governo dell’Unione europea, salvaguardare la moneta comune e quindi tutelare l’economia dei Paesi dell’area euro negli anni tremendi della crisi importata dagli Stati Uniti. Forse non conosce ancora fino in fondo meschinità e litigiosità di partiti e partitini tricolori, ma ha ben presente l’esercizio del potere avendolo praticato su scala continentale.
Draghi è dunque l’italiano più autorevole oggi presente nel consesso europeo, ma è improprio considerarlo un tecnico prestato momentaneamente alla politica. È un politico con eccellenti competenze tecniche. Lo si capisce già dalle prime mosse. A partire dalla composizione del governo.
Costretti dal naufragio del Conte bis a sedersi nella maggioranza degli opposti, Movimento 5 Stelle e Partito Democratico si sono dovuti accontentare degli strapuntini. Puniti per l’incauta gestione della crisi aperta con cinismo corsaro da Matteo Renzi, ora devono subire ciò che viene deciso da altri. Sarà pur vero che Luigi Di Maio ha conservato gli Esteri e Lorenzo Guerini la Difesa, ma i fondi europei – il sol dell’avvenire per generazioni presenti e future – scorrono altrove. In direzione Nord. Dove la Lega in doppiopetto governista conta di irrorare le sue radici storiche proprio con i tanti soldi dell’odiata «Europa dei tecnocrati».
Se la distribuzione dei ministeri è avvenuta rispettando un delicato equilibrio tra vincitori e vinti delle elezioni del 2018, con la supervisione silente e sapiente del Quirinale, l’assegnazione dei 39 posti di viceministro e sottosegretario ha premiato la Lega in quantità (nove poltrone) e Forza Italia in finalità. Nelle mani di Silvio Berlusconi infatti torna, attraverso il senatore Giuseppe Moles, la delega all’Editoria. Gli mancava da un decennio; per Sua Emittenza è un ritorno alla grande nella gestione di ciò che gli sta tanto a cuore, la roba di famiglia.
Anche il licenziamento di Domenico Arcuri, più che giustificato visti gli scarsi risultati della sua gestione commissariale, sembra uno scalpo concesso al ritrovato protagonismo di Matteo Salvini. Il capo della Lega si è convertito all’europeismo alla velocità con cui ci si sfila una felpa. Ed è tornato ai temi preferiti della propaganda continua: i porti chiusi, gli immigrati, la sicurezza. Di lotta e di (sotto)governo per non lasciarsi imbrigliare nel governo di tutti. Con il rischio di scomparire nel governo di nessuno.
Destino dal quale cinquestelle e dem non riescono in questa fase a liberarsi. Il Pd è paralizzato dal suo essere-non-essere, di nuovo ripiegato in una resa dei conti interna, costretto a subire Draghi che poteva essere una risorsa, mentre si sta trasformando in una minaccia. Il M5S è lacerato. Un organismo geneticamente modificato. Con Conte come capo politico, comunque, il Movimento mostra capacità di resistenza; nei sondaggi (per quel che valgono) è in ripresa e cannibalizza il Pd.
«Nel governo Draghi sta incubando ciò in cui si trasformerà il sistema politico in seguito a questa fase» dice Piero Fassino quando presenta il suo libro sul centenario del Pci. Quando e come si manifesterà la trasformazione? Si possono ipotizzare tempi relativamente ravvicinati. Meno di dodici mesi, quando si deciderà la successione di Sergio Mattarella.
Un anno più o meno, l’orizzonte temporale di azione di questo governo indicato dalla neoministra Erika Stefani, leghista veneta, intervenuta in un webinar sulla pandemia. Draghi sembra un predestinato al Quirinale. Il centrodestra pronto a ricompattarsi, nonostante Giorgia Meloni si sia assunta il compito di sventolare la bandiera dell’opposizione, per correre unito verso le elezioni. E il centrosinistra? Drammaticamente senza una linea. Subalterno a Draghi come già accadde dieci anni fa con Mario Monti.