Paolo Rossi, il goleador gentile nato due volte

Darwin Pastorin

Ci sono imprese calcistiche che restano nella storia, nella memoria collettiva, che appartengono all’epica, che escono dalla cronaca per entrare nella leggenda. Il football, abbagliante «metafora della vita», come ci insegnò Jean-Paul Sartre, ha saputo regalarci momenti di assoluta e assurda felicità.

Come al Mundial di Spagna del 1982: quel successo che continua ad avere il sapore della ballata popolare, di una vicenda che è uscita dal prato verde per diventare letteratura, poesia pura. Con un calciatore a dominare la scena, un calciatore che, in quei giorni di passione e furore, firmò, con i suoi gol e il suo talento, la sua personalissima rinascita: parliamo di Paolo Rossi, goleador di quella manifestazione con sei reti (e poi Pallone d’Oro), l’asso che riuscì a unire sotto un’unica bandiera, quella biancarossoverde, una nazione, da un punto di vista politico e sociale, divisa e lacerata.

Potere e magia del pallone, forza di un bomber che continuiamo a rimpiangere: e io non riesco ancora a credere alla sua scomparsa avvenuta il 9 dicembre dello scorso anno, la ferita è tuttora aperta, la nostalgia fortissima, se n’è andato un amico, un fratello, non soltanto un lucente campione. Riprendo in mano la sua autobiografia, scritta con la moglie, la bravissima giornalista Federica Cappelletti, Quanto dura un attimo (Mondadori), e lo ritrovo in queste parole, suo manifesto esistenziale: «Può colpirti la sfortuna, sconvolgerti l’ingiustizia. Ma tu non mollare mai. Forza e coraggio, ché i sogni a volte si avverano». Pablito non ha ceduto mai e ha saputo, con la forza della sua bravura, del suo coraggio e della sua stoica volontà, recuperare il tempo perduto, conoscere il riscatto e la gloria, una gloria sempre vissuta con umiltà, in punta di piedi.

È la Spagna a ridare una seconda vita a Paolo Rossi. Ritorniamo, insieme, a quella stagione, a quei momenti. Pablito viene convocato per i mondiali dopo aver scontato una ingiusta condanna per lo scandalo delle scommesse clandestine. Enzo Bearzot, il commissario tecnico della nazionale, il Vecio narrato da Giovanni Arpino nel romanzo Azzurro tenebra, lo vuole a tutti i costi, garantendogli anche la maglia da titolare. Non ha dimenticato, l’allenatore friulano, le prodezze del centravanti al Mundial d’Argentina del 1978 (dove, come ci ricordava Eduardo Galeano, in uno stadio si giocava e in un altro si torturava). Il bomber ha alle spalle soltanto tre partite e un gol (all’Udinese) con la maglia della Juventus, la sua forma fisica non è straordinaria, ma Bearzot è persino disposto a sacrificare, sul suo altare, il cannoniere Pruzzo: lui crede, ciecamente, nel suo Pablito.

E sarà lui a guidare l’attacco azzurro, punto e basta. Partono le critiche, gli anatemi. Ma cosa importa? Bisogna guardare avanti, al girone di Vigo, con Polonia, Perù e Camerun. E qui la nostra nazionale delude, tre pareggi, la qualificazione raggiunta soltanto con il secondo posto e grazie alla miglior differenza reti rispetto agli africani. E, ora, bisogna andare nel durissimo girone di Barcellona: con l’Argentina del fenomeno Maradona e il favoritissimo Brasile di tutte le meraviglie, possibili e impossibili.

Gli azzurri vengono travolti da accuse e veleni, per difendersi decidono di dare vita al silenzio stampa, qualcuno scrive «Ma a Barcellona che ci andiamo a fare?». Sembra la cronaca di una disfatta annunciata. E Rossi è tra i bersagli preferiti, senza gol, appare triste solitario y final.

Ma qualcosa comincia a cambiare a livello collettivo: la nostra squadra supera gli argentini per 2-1, grazie alle prodezze di Tardelli e Cabrini. La Seleçao fa ancora meglio, battendo i cugini 3-1. E così si arriva a Italia-Brasile, stadio Sarrià, 5 luglio 1982. Con i verdeoro che possono accedere alla semifinale anche grazie al pari, vista la miglior differenza in fatto di gol. Sembra un match impossibile, i sudamericani hanno dimostrato, fino a quel momento, di essere imbattibili. Junior, Sòcrates, Zico, Falcão, Toninho Cerezo sono assi celebrati, il loro è un footballo-samba, musica e spettacolo. Non solo: Pablito continua a non convincere, alla vigilia del match in tanti, in troppi cercano di convincere Bearzot a metterlo da parte, a schierare Altobelli al fianco di Graziani. Ma il Vecio chiude la discussione: «Io credo in Paolo e contro il Brasile, vedrete, farà una grande partita».

E il calcio non è una scienza esatta esatta, il calcio riesce a scrivere pagine di una bellezza infinita. E quel 5 luglio, sotto un cielo di fuoco, Paolo Rossi ritorna a essere Pablito, realizza tre reti, gli azzurri battono, così, la Seleçao 3-2 e Zoff, il capitano, 41 anni, compie, proprio allo scadere della partita, una parata superba su un colpo di testa del difensore centrale Oscar Bernardi.

E il nostro centravanti non si ferma più: due gol alla Polonia e uno nel 3-1 alla Germania Ovest nella finale del Santiago Bernabeu di Madrid, con il nostro presidente Sandro Pertini felice come un bambino al fianco del re Juan Carlos in tribuna d’onore. Rossi passa, così, da buio al miele, dalla polvere alla fama. Ma non perderà mai quel suo sorriso lieve e gentile di quando era ragazzo.

Non si vestirà mai di superbia e di arroganza. Mi disse, in un pomeriggio torinese: «Sono nato a Prato il 23 settembre 1956 e rinato a Barcellona il 5 luglio 1982».

Quando ci manchi caro, splendido Pablito…

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