Rifkin’s Festival, il piccolo capolavoro di Woody Allen

Giorgio Simonelli

Finalmente dopo una lunga attesa e qualche assurdo ostacolo è arrivato nelle sale l’ultimo film di Woody Allen, Rifkin’s Festival. E, diciamolo subito, per fortuna, perché se fossero prevalse le bizzarre resistenze americane ci saremmo persi un piccolo capolavoro.

Piccolo perché Allen non si prende mai troppo sul serio e anche questa volta non pretende di toccare i tasti del sublime. Ma questo insieme di ironia, umorismo, spessore culturale e bellezza di immagini raggiunge livelli di assoluta eccellenza. Non vorrei che qualcuno cadesse nel pregiudizio che vede nell’ultima parte della produzione di Allen un’inutile ripetitività. Certo anche qui c’è il solito schema: il solito intellettuale newyorkese maturo, Mort Rifkin, un professore di cinema, con le solite nevrosi (l’ambizione irrealizzata di scrivere un romanzo di successo), con la solita compagna più giovane e bella che lo tradisce con un regista francese giovane, affascinante, di grande successo, carismatico, un po’ sbruffone e forse non così geniale come si crede e lo credono.

Anche Rifkin, come tutti i personaggi alleniani, affonda le sue nevrosi in un pregresso di incomprensioni da parte dei genitori e di delusioni sentimentali (un suo amore di gioventù gli ha preferito il fratello) e, sulla scia di molti personaggi di Woody Allen, trova temporanea consolazione nell’incontro con una bellissima dottoressa tanto capace professionalmente quanto sfortunata in amore.

Il tutto, come sempre, su uno straordinario sfondo paesaggistico, anzi più delle altre volte, visto che il paesaggio non è quello di Manhattan, di Parigi, di Roma, di Barcellona o di Venezia, ma quello più inconsueto e non meno affascinante di San Sebastian, dove la coppia si è recata per seguire il festival del cinema. Ma il tocco di genio di Allen non sta nella storia nè nel paesaggio, il vero cuore del film sono le citazioni dei classici della storia del cinema.

Meglio essere precisi: non si tratta di semplici allusioni, di riferimenti en passant come talvolta avviene in altri film di Allen e non solo. In questo caso c’è molto di più; ci sono ben nove corposi inserti, nove sequenze che rappresentano sogni, fantasie, ossessioni del protagonista, in cui i personaggi e le situazioni che appartengono alla sua vita prendono le forme di famose scene di classici della storia del cinema. Ecco dunque che Rifkin, la moglie Sue, il fratello, la cognata, i genitori, la bella dottoressa spagnola, il regista francese, con cui Sue lo tradisce, si trovano inseriti (nell’ordine) in Quarto Potere, Otto e mezzo, A bout de souffle, Jules e Jim, Un uomo e una donna, Persona, Il posto delle fragole, L’angelo sterminatore, Il settimo sigillo.

Le sequenze, meravigliosamente rifatte (la mano di Storaro è evidente) propongono dialoghi riferiti alla vicenda di Rifkin, ma hanno ambienti, colori (bianco e nero) e persino il formato (quello quadrato del vecchio cinema) dei film citati.

La scelta dei film non è casuale e ha un duplice significato. Come si vede, si tratta delle opere dei maestri del cinema europeo, a cui si aggiunge Orson Welles, il più europeo degli americani. Il primo a giustificare questa scelta è ovviamente il protagonista, convinto, da professore di storia del cinema, che l’anima del cinema, del grande cinema sia quella europea, dei grandi registi tra gli anni ’50 e ’60 e non quella del cinema americano, di Ford o Hawks, prediletto invece dal suo rivale in amore. La rivalità, dunque, si estende dal piano sentimentale a quello culturale. E qui scende in campo Woody Allen.

L’identificazione con il suo personaggio riguarda non solo l’ipocondria, la nevrosi e la malinconia senile, ma anche la collocazione nel dibattito critico. Il giovane regista di successo, un po’ cialtrone, presuntuoso e pretenzioso, di gran moda ma senza spessore ben rappresenta la nuova generazione critica che, in assoluta adorazione del cinema americano, ha dimenticato i grandi maestri europei.

È molto chiaro quale parte nell’aspro confronto prende il regista e lo fa con una certa decisione. Al punto che il film più che la «solita commedia» potrebbe essere considerato un suo testamento spirituale: almeno così lo definirei, se non pensassi a quale tagliente battuta sarebbe capace di tirar fuori Woody Allen attorno alla definizione di testamento spirituale.

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