A distanza di quattro anni dalla morte di Alessandro Leogrande è il caso di chiedersi se il suo lascito intellettuale sia stato raccolto e valorizzato in qualche modo. È una domanda che dovrebbe riguardare in primo luogo la sua comunità d’origine, cui egli ha dedicato tempo ed energie offrendo chiavi di letture spesso penetranti ai processi che la hanno attraversata negli ultimi trent’anni.
Leogrande ha raccontato con rigore e passione la Taranto sconvolta dal declino industriale. Sin da giovanissimo egli ha saputo riconoscere l’intreccio fra la crisi di paradigma che ha sgretolato la fragile identità cittadina emersa alla fine del XIX secolo e l’emersione di fenomeni politico-culturali morbosi – su tutti il citismo, archetipo di molti populismi di là da venire.
Con questo stesso approccio Leogrande ha analizzato anche il terremoto successivo alle calde giornate dell’estate 2012, quando l’iniziativa della magistratura ha raso al suolo il sistema di potere eretto dai Riva nel ventennio precedente. Un cratere nel cratere, da cui si sono sprigionate forze dirompenti che hanno ulteriormente lacerato una comunità già sfibrata.
Ma Leogrande non si è limitato ad osservare la sua città che pezzo per pezzo rovinava: ha provato anche a esprimere una prospettiva. Astraendo dal merito delle sue posizioni – inevitabilmente condizionato dalle contingenze –, è possibile individuare nel suo pensiero una linea unitaria, che resta coerente con sé stessa pur negli inevitabili adattamenti che la realtà impone. Questa si compone di tre elementi di fondo.
In primo luogo, l’idea della politica come progetto. Non può sussistere azione senza riflessione, prassi senza pensiero. Delineare il punto a cui si vuole tendere è fondamentale per orientare il proprio cammino e misurare la tollerabilità dei compromessi. È un’idea che inscrive pienamente Leogrande nel solco della tradizione illuminista, ponendolo in antitesi radicale tanto con un certo irrazionalismo oggi di moda quanto con il gretto cinismo prevalente fra i politici di professione.
In secondo luogo, l’attenzione per i rapporti sociali nella loro concretezza. Per Leogrande il cambiamento consiste essenzialmente nel movimento di grandi aggregati sociali. Né una vaga cittadinanza attiva e tanto meno un leader visionario possono incidere sulla scorza dura della realtà. Ma allo stesso tempo egli non coltiva alcuna illusione spontaneista: è consapevole della subalternità di vaste parti della società. Ed è in questo iato che Leogrande colloca la funzione delle organizzazioni collettive, che non possono limitarsi alla rappresentanza, ma sono chiamate a svolgere una funzione di pedagogia politica.
Infine, uno sguardo largo sul futuro. Leogrande è consapevole che, crollato il monoteismo industrialista, sarebbe assurdo votarsi a qualche nuovo idolo. Bisogna abbandonare un modo astratto di pensare secondo schemi e modelli, e riferirsi alla realtà concreta. Solo in questo modo si possono far emergere bisogni, risorse e opportunità che prima non si era neanche in grado di scorgere. E su questa base si può elaborare un’identità plurale in grado di fronteggiare le sfide di un mondo in continuo mutamento.
Se questo è, in estrema sintesi, il messaggio che Leogrande ci ha lasciato si deve constatare con amarezza che la sua città non ne ha fatto tesoro. Pur avendogli dedicato una passeggiata e un murale, Taranto continua a mostrarsi indifferente nei confronti delle sue idee: a vagheggiare miti rifondativi, a non interrogarsi sulle dinamiche che attraversano il suo corpo sociale, a riproporre una pratica della politica come pura lotta per il potere.
Ma quelle idee restano, e rappresentano un riferimento imprescindibile per chiunque voglia provare anche solo a immaginare un cambiamento possibile.