Da trent’anni i partiti non riescono più a svolgere, per una serie di motivi di cui si è molto discusso, il fondamentale ruolo di favorire la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica (che non si esprime soltanto il giorno delle elezioni) e di contribuire a selezionare, con quell’azione di connessione fra istituzioni e cittadini stessi, la classe dirigente.
Da nove mesi sono addirittura scomparsi. Ad eccezione, comunque la si pensi, del partito di Giorgia Meloni, che svolge il suo legittimo ruolo di unica forza di opposizione e di una certa vivacità di quello di Matteo Renzi.
La Legislatura in corso ed i governi che ne sono stati espressione hanno prodotto danni per i primi due anni e mezzo. Poi è diventato Presidente del Consiglio Mario Draghi, con il consenso quasi unanime del Parlamento. La sua autorevolezza ed il suo indiscutibile prestigio hanno contribuito alla sostanziale scomparsa, in termini di idee e di visione, delle forze politiche, che non possono che sostenerlo in un clima di calma piatta.
Draghi ha tolto anche argomenti e fiato alla demagogia, difendendo gli interessi nazionali senza ricorrere al populismo, dilagante e vincente alle ultime elezioni politiche. Proprio di recente il Governo ha assunto decisioni a tutela dell’interesse nazionale senza attendere l’unanimità dei Paesi della UE ed in un certo senso sfidandola.
Mentre The Economist – mai tenero con l’Italia – esprime un riconoscimento al nostro Paese come il migliore dell’anno, due delle tre principali confederazioni sindacali, CGIL e UIL, indicono e celebrano uno sciopero generale in conflitto con il Governo.
Va detto che il sindacato non è rimasto immune dalla crisi dei partiti politici e in generale delle organizzazioni sociali, in un mondo del lavoro profondamente cambiato, frammentato, di difficile lettura, con muove professioni e inedite aspettative di lavoratori e lavoratrici, che non sono più una classe. Ha difettato nell’analisi della modernità e sul modo di governarla, attardandosi in rivendicazioni dal sapore ideologico, come ad esempio la strenua difesa di un impianto del Diritto del Lavoro non più adatto ai tempi.
Tuttavia, in questo difficilissimo periodo dominato dall’emergenza sanitaria, i sindacati hanno assunto posizioni complessivamente ragionevoli e responsabili. Un po’ a sorpresa, benché in presenza di un Governo tutto sommato disponibile all’ascolto, hanno deciso per lo sciopero.
Lo sciopero generale è o dovrebbe essere un’arma estrema; i lavoratori di tutte le categorie professionali si mobilitano in occasione di eventi di straordinaria gravità, quando cioè non ci sono altre vie d’uscita. Non sembra questo il caso.
Peraltro, non appare secondaria, tutt’altro, la dissociazione delle CISL.
In questo caso lo sciopero e la credibilità stessa dei promotori si affievoliscono e viene da chiedersi se fosse davvero il caso di rompere l’unità sindacale per rivendicazioni che potevano essere avanzate con modalità e strumenti diversi. Ne ha anche risentito, a quanto dicono i dati ed inevitabilmente, il numero di lavoratori che hanno aderito allo sciopero stesso.
Lo sciopero è stato proclamato, ufficialmente, per punti di disaccordo sulla Legge di Bilancio. L’arma appare sinceramente sproporzionata. Oppure la mobilitazione generale è stata decisa per rompere la calma piatta cui ho accennato in apertura, per battere un colpo.
Questa interpretazione non ha una connotazione, completamente, negativa: le organizzazioni sindacali è giusto abbiano un ruolo attivo nei processi decisionali, è giusto che si negozi, che si protesti all’occorrenza e non si lasci al Governo e al Presidente del Consiglio, al di là della sua autorevolezza e chiunque egli sia a un dato momento, la decisione su ogni dossier senza passare da una discussione di merito. Insomma, una presenza, quella delle organizzazioni sindacali (se fosse stata unanime) che può anche essere benvenuta in un periodo di afasia del dibattito politico.
Ed anzi il punto è proprio questo, a ben guardare.
Basta ascoltare il comizio e le dichiarazioni dei leader sindacali scioperanti: ridare parola ai deboli, rappresentare chi non ha voce, chi è rimasto indietro, i gruppi sociali che hanno bisogno di un sostegno. Cose nobilissime, bene inteso, ma che appaiono un tentativo di supplenza di partiti assenti, insomma un programma politico più che una rivendicazione puramente sindacale.
E infatti le rivendicazioni sulla Legge di Bilancio, alla fine, restano in penombra e non giustificano di per sé il ricorso ad un’arma estrema come lo sciopero generale. Forse la CISL ha interpretato così e se ne è dissociata.
«Restituire dignità al lavoro», «combattere la precarietà».
Giusto. Ma come? Cosa dovrebbe fare in concreto il Governo e cosa, in particolare, dovrebbe contenere la Legge di Bilancio? Sono intendimenti ed obiettivi di natura politica. Anzi, sono temi sui quali dovrebbero meglio e di più attivarsi, rispetto al passato, le stesse organizzazioni sindacali.
Perché la dignità del lavoro, associata a percorsi professionali troppo discontinui soprattutto dei più giovani e retribuzioni che troppo spesso tradiscono l’articolo 36 della Costituzione italiana chiamano in causa, anche, il ruolo delle organizzazioni sindacali e non solo quello del Parlamento.
Attendiamo da anni una legge che misuri rappresentanza e rappresentatività dei sindacati, in assenza della quale non si può dare attuazione all’articolo 39 della Costituzione italiana ed estendere erga omnes la validità dei contratti collettivi, a protezione di chi un contratto collettivo non lo ha, ovvero ne ha uno dei 935 (!) censiti in Italia, probabilmente di dubbia legittimità e limpidezza.
La discontinuità dei percorsi professionali, che può tradursi a lungo andare in un corrosivo stato di precarietà, non riguarda la Legge di Bilancio, quanto il superamento di irragionevoli resistenze a dare prevalenza ad efficaci e vere politiche attive del lavoro – attuando le necessarie riforme – più che a quelle passive.