La rielezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica, e l’indiretta conferma di Mario Draghi alla guida del governo, non deve trarre in inganno: può apparire come la scelta di non cambiare nulla, come del resto ha dichiarato la sconfitta Meloni. In realtà, è un’elezione che non cambia nulla perché si spera che cambi tutto. La massima del Gattopardo, «Bisogna cambiare tutto per non cambiare niente», viene rovesciata. La conferma della coppia che è stata punto di riferimento istituzionale in una difficile transizione, non lascia la situazione com’era. Le ripercussioni potrebbero essere profonde sia per i partiti sia per il Paese.
Innanzi tutto, la conferma rispecchia l’orientamento largamente prevalente dell’opinione pubblica che i sondaggi hanno fotografato: il sentimento di fiducia verso Mattarella, la stima per Draghi. Dietro questa indicazione, si coglie il bisogno di stabilità e di sicurezza di un Paese che ha dovuto affrontare una pandemia che ha causato decine di migliaia di morti e una delle crisi economiche più pesanti degli ultimi decenni. Stabilità e sicurezza per gli italiani non si traducono in staticità. Al contrario, i cittadini chiedono che il cambiamento prosegua, ma si realizzi senza azzardi. Il Paese tra pandemia e declino economico ritiene che il nemico sia l’incertezza. Nella tempesta non vuole rinunciare alle figure che giudica affidabili. Mattarella e Draghi rappresentano per i cittadini questa prospettiva: continuare a lavorare alla modernizzazione del Paese, non fermare il cambiamento avviato con le riforme, non sprecare l’occasione delle ingenti risorse del Pnrr.
Nulla cambi perché tutto cambi. Questo sembra il messaggio del Quirinale. Un messaggio che ha un emittente, il Paese, che ha trovato un canale, i parlamentari di quasi tutti i partiti, ed è arrivato al destinatario, i leader dei partiti paralizzati dai veti reciproci. Questa elezione, quindi, segna importanti discontinuità sulle quali vale la pena riflettere.
La supplenza del Parlamento al vuoto di leadership
Lo spettacolo andato in onda per giorni in diretta tv non ha mostrato solo la crisi della politica. Ha messo in rilievo la crisi dei leader incapaci di tessere un accordo tra loro, bloccati dai veti reciproci e dalla regola della unanimità. Salvini, che si è autoassegnato il ruolo di kingmaker, si è immerso in una girandola di incontri, consultazioni, telefonate il cui risultato è stato bruciare con un voto mortificante la seconda carica dello Stato, la presidente del Senato Casellati, tradita dalle sue stesse ambizioni. Ma prima aveva affondato la sua stessa rosa di nomi (rispettabili ma non all’altezza dell’incarico) insieme ad alcune candidature volanti. Dopo ha fatto impallinare Elisabetta Belloni, ex segretaria generale della Farnesina, una civil servant qualificata e stimata, che a causa dell’incarico che ricopre di capo dei servizi segreti era palesemente inappropriato proporre come capo dello Stato.
Tutte mosse che Salvini ha compiuto con leggerezza per mascherare l’inconcludenza della sua azione. Del resto, si è ben presto scoperto che a dargli un sostegno era stato il leader del M5S, Giuseppe Conte, che in realtà avrebbe dovuto fare squadra con il centrosinistra, ma che giocava anche su altri tavoli. La Meloni è lentamente apparsa come la vera regista di una coalizione che ha scelto il conflitto per imporre il primo presidente di destra della storia. La leader di Fdi non si è resa conto di essere rimasta prigioniera della propria narrazione sul diritto di ottenere il trofeo presidenziale, perché la destra sarebbe titolare della maggioranza dei grandi elettori. In realtà, in Parlamento c’è un sostanziale equilibrio tra centrodestra e centrosinistra, nessuna delle due coalizioni, frammentate all’interno, avrebbe potuto vincere una prova di forza.
Gli errori dei leader, quindi hanno portato la trattativa su un rischioso binario morto. Di conseguenza hanno reso visibile la crisi strategica delle due coalizioni e dei loro partiti. Il centrodestra soprattutto è apparso diviso tra chi non voleva le elezioni subito e auspicava la scelta di un presidente che garantisse la continuazione della legislatura (Forza Italia e i centristi) e chi invece cercava la spallata con la Casellati per liberarsi di Draghi e andare al voto. L’ideologa del conflitto suprematista era la Meloni. Salvini non è riuscito a tenere insieme la maggioranza di governo con la maggioranza per il Quirinale, fino a quando non ha ceduto all’istinto populista di imporre il nome. Il risultato è che la Lega vive ora una crisi strategica: diventare una destra di governo normale o dimenticare Draghi e tornare a essere una formazione sovranista che punta le sue carte sulla protesta e sul movimento per evitare la concorrenza di Fdi.
Salvini ha incarnato questa contraddizione, che non riesce a trovare una conciliazione. E l’oscillazione continua tra le due alternative ha finito per logorare la sua credibilità e la sua autorevolezza. Il segno della lacerazione l’ha dato Forza Italia quando ha deciso di rappresentarsi da sola senza rilasciare cambiali in bianco al segretario leghista. Quasi la certificazione che il centrodestra riconosce la sua irrisolta frammentazione.
Ma la crisi strategica investe, sia pure in modo differente, anche il centrosinistra. Tocca il M5S per la volatilità, l’incertezza del suo leader Conte, che deve affrontare una crisi di affidabilità. Le posizioni più equilibrate Di Maio hanno corretto, ma non del tutto riparato, i tentennamenti contiani. Del resto, interrogativi si sollevano anche sul Pd, che pure ha mantenuto la strategia della «forza tranquilla», che si è rivelata utile e lungimirante. È chiaro che la relazione con il M5S, per quanto necessaria, dovrà essere ridefinita. Renzi ha spesso anticipato i tempi, aveva puntato su soluzioni percorribili tra cui Mattarella, che fece eleggere, ha dato una mano a Letta, bocciando subito la Casellati e stoppando l’operazione Belloni, tuttavia la sua dimensione resta limitata. Forse Letta ha interpretato il ruolo di forza resiliente e rassicurante con un eccesso di prudenza, lasciando spazio all’iniziativa della destra. Ma ha ottenuto l’importante risultato di Mattarella.
In questo quadro di debolezze incrociate, con i leader e i partiti impantanati nella trattativa, il Parlamento ha assunto un’iniziativa senza precedenti. I parlamentari delle due coalizioni hanno raccolto il segnale di insofferenza che proveniva dal Paese e hanno cominciato a sostenere in aula, in diverse votazioni, il nome di Mattarella. Fino a quando il presidente uscente ha raggiunto il dato ragguardevole di 336 schede senza nessuna regia. Il messaggio era difficile da ignorare. Ed è arrivato come un monito ai vertici privi di decisioni dei leader. Il Parlamento, quindi, ha svolto una supplenza rispetto al vuoto di leadership che si stava creando, soprattutto a destra. Quasi un gesto d’orgoglio dell’aula stanca di astenersi o di votare scheda bianca. Ma questo gesto poggiava su un fattore imprevisto: la connessione con la preoccupazione crescente del Paese.
I leader senza agenda e il consenso multimodale
Se la prima discontinuità è che il Parlamento ha scritto l’agenda per il Quirinale al posto dei segretari e dei partiti, la seconda sembra il mutato statuto dei leader. Rimasti senza il potere di agenda, incapaci di raccordarsi con lo stato d’animo del Paese, sono stati come depotenziati. Abituati a muoversi sul palcoscenico della mediatizzazione come i nuovi sovrani, trovarsi a rischio di ritiro della fiducia da parte dei loro peones, che cominciavano a votare senza ascoltare le istruzioni, li ha colti di sorpresa. Finora il leader era ritenuto colui che costruisce l’offerta politica con la rivendicazione di rappresentanza e il legame di fiducia sottostante che instaura con i cittadini. Di colpo sono tornati a essere dei delegati, che agiscono in virtù di un mandato fiduciario revocabile in ogni istante. È riapparsa la delega, che ha costretto alcuni segretari a una precipitosa marcia indietro e ad accomodarsi a un veloce compromesso. Il ritorno di Mattarella sembra scuotere il sistema politico e lo spinge a fare i conti con una realtà mutata.
È stato notato da pochi che quando la Casellati è stata bocciata i mercati finanziari hanno indirettamente festeggiato, abbassando lo spread Btp-Bund tedeschi, che aveva ripreso a salire. Segno di una rinnovata fiducia sulla piega che prendevano gli eventi in Italia. Ma proprio questa coincidenza rivela che anche in Italia il consenso si costituisce, forse direbbero i linguisti, come multimodale. Il riferimento non è al supporto (il tipo di tecnologia), ai canali sensoriali dell’interazione (vista, udito etc.), ma ai diversi codici che vengono attivati. Sul Quirinale abbiamo visto all’opera un consenso ampio che ha utilizzato i codici dell’opinione pubblica, quelli di gran parte del giornalismo e dei social che non hanno risparmiato critiche allo spettacolo poco dignitoso della politica, quello dei mercati che si sono fatti sentire con le quotazioni. L’oscuramento dell’interesse generale ha creato le condizioni affinché leader e partiti si trovassero invischiati nella nuova rete del consenso, che credevano di potere sottovalutare o ignorare, agendo come se fossero sovrani non sottoposti alla legge della fiducia. A differenza di Napolitano, che accettò la rielezione su decisione dei leader di partito, Mattarella è stato rieletto a causa di un movimento dal basso, che ha visto protagonisti i parlamentari, l’opinione pubblica, i mercati, i giornali e i social.
Il cambiamento e la presidenzializzazione interrotta
Finora una delle tendenze di fondo delle democrazie moderne, compresa quella italiana, è stata considerata la presidenzializzazione, vale a dire l’accentramento di potere sull’esecutivo rispetto al legislativo. L’elezione di Mattarella è un messaggio che sembra indicare una controtendenza: il Parlamento in sintonia con la sfera pubblica ha suggerito la soluzione. Il voto sembra dare un’ulteriore scossa al sistema politico. Manda un segnale che potrebbe interrompere la presidenzializzazione del sistema anche riguardo ai progetti di elezione diretta del presidente. Rivela senza sconti il vuoto di leadership e la crisi dei partiti. Mostra come l’autosufficienza delle coalizioni sia illusoria. Di fronte alle grandi sfide, non sembra il conflitto la soluzione praticabile. Semmai è la capacità di costruire un consenso che metta in rete istituzioni, opinione pubblica, mercati, media, social. Qualcuno direbbe: è la complessità.
Adesso tocca ai partiti e al Parlamento rispondere alla domanda di cambiamento nella sicurezza che arriva dal Paese. Mattarella e Draghi sono incoraggiati a non fermarsi. Si può prevedere che le tensioni di questi giorni si scarichino sul governo, sulla sua composizione, sul suo programma, sui rapporti tra i partiti. Il trauma della discontinuità, che ha prevalso con la rielezione di Mattarella, dovrà essere metabolizzato. Ma dovrà trovare uno sbocco. L’Italia non può perdere gli investimenti del Pnrr, non può far cadere la crescita record del 2021 che pare si aggiri sul 6,5%, non può bloccare il recupero del mercato del lavoro, non può fermarsi nella lotta alla pandemia. Forse non deve cambiare nulla per poter cambiare tutto. La sfida è aperta.