La subordinazione è il concetto cardine dello Statuto dei lavoratori, il lavoro subordinato, quello contestualizzato nella grande organizzazione industriale, è l’oggetto della normazione nella legge 20 maggio 1970, elaborata da Gino Giugni e voluta politicamente dal ministro socialista Brodolini prima e sostenuta, poi, dal ministro democristiano Carlo Donat-Cattin.
Per dirla in modo più specifico, l’organizzazione del lavoro cui fa riferimento lo Statuto è la grande fabbrica che ha svolto la funzione di regolatore economico dei molteplici fenomeni sociali, configurando così la società del secolo scorso. Adattata alla grande organizzazione pubblica, questa legge del 1970 non lo è stata alle imprese che occupano meno di 15 lavoratori e nemmeno ovviamente agli studi professionali, cioè al tessuto socio-economico che costituisce ancora oggi una parte preponderante della realtà del nostro paese.
Inoltre, nello Statuto, il posto di lavoro, più che l’attività lavorativa, costituisce il focus delle osservazioni del sociale. Giugni stesso, in un libretto che raccoglie interventi a una tavola rotonda organizzata dopo 5 anni di applicazione dello Statuto dei lavoratori, afferma come proprio il posto di lavoro sia da considerare la base della libertà umana.
Il posto quindi significa stabilità del lavoro, continuità di reddito e anche, spesso, possibilità di carriera e quindi miglioramento in termini reddituali oltre che di qualità della vita lavorativa. Questa stabilità, infatti, permette certo la prevedibilità del futuro, l’emancipazione e tutto quello che oggi diremmo legato alla dignità personale.
In realtà, la grande organizzazione del lavoro e il posto configurato al suo interno sono i punti di osservazione da cui partivano le riflessioni giuridiche, secondo il metodo di elaborazione del diritto che Giugni aveva indicato già anni prima quando scriveva della sociologia come ancella del diritto. Sono, infatti, i fatti sociali che sollecitano la regolamentazione, e quell’epoca registra evoluzioni tecnologiche, organizzative e sociali tali da essere recepite in una normativa che segna uno spartiacque fra due diverse condizioni e immagini del lavoro.
Prima della legge, i lavoratori erano schiacciati da una mole di regole, potevano essere spiati e sorvegliati, subivano la disciplina del cottimo e i licenziamenti individuali e collettivi. Le nuove norme sembrano invece attenuare i vincoli del fordismo, garantire il diritto alla libertà d’opinione, prevedere la partecipazione sindacale nelle assemblee, esigere la giusta causa per i licenziamenti, proteggere le condizioni dei lavoratori e persino quelle delle lavoratrici. Il sindacato è legittimato come soggetto di contropotere rispetto al datore di lavoro e diventa protagonista gestendo le lotte in rappresentanza dei lavoratori, soprattutto negoziando le condizioni del lavoro, in nome dell’interesse collettivo dell’intera classe lavoratrice.
Nello Statuto dei lavoratori, allora, quello che appare tutelato sindacalmente è il lavoro subordinato, perché si combatte la perdita di un posto di lavoro e si garantisce la stabilità di questo posto a un lavoratore indissolubilmente legato all’ordine di fabbrica, incastrato tra macchinari e metodologie comportamentistiche, quale ingranaggio nella sequenza logica organizzativa finalizzata alla produttività.
Ancora più importante da dire è che si parte proprio da questa modalità di lavoro svolto nell’organizzazione industriale per allargare la tutela alla società più ampia, secondo il patto sociale tra la grande industria e lo stato del welfare. La subordinazione può rendere il lavoratore alienato e stanco per monotonia e insoddisfazione, ma proprio l’inserimento obbediente nell’organizzazione è la condizione e dà la misura dello scambio con le tutele sociali.
Tanto è vero tutto ciò che, subito dopo gli anni della promulgazione della legge 300/1970, nelle discussioni giuridiche si è assistito all’estensione del concetto di subordinazione, giuridica o economica. Dapprima il focus è sul rapporto di dipendenza creato tramite il sistema dell’appalto nella costellazione delle piccole imprese, da parte della grande impresa che, decentrandosi, ha cercato di svincolarsi dalle tutele sindacali. Poi, quando il lavoro stabile sarà risucchiato dalla diffusa flessibilità nel mercato del lavoro e il lavoro subordinato nella fabbrica scompare lentamente dal quadro giuridico, Marco Biagi propone di ridefinirlo come lavoro subordinato economicamente, nella regolazione del rapporto tra retribuzione e autonomia.
Ichino, per valorizzare l’autonomia individuale nel mercato del lavoro, formula tre fasce di tutela collegate al tipo di subordinazione: una tutela di sicurezza minima per lavoratori autonomi e subordinati nella logica della flexibility, una tutela più intensa per il lavoratore economicamente dipendente e una tradizionale per il lavoratore subordinato in senso stretto ma soggetta ad aperture derogative.
Oggi, Cingolani, di fronte al capitalismo delle piattaforme digitali, dove il lavoratore perde i connotati della subordinazione e appare agire in autonomia, si pone la questione delle tutele sindacali perse insieme al lavoro subordinato.
Più in generale, ci s’interroga ancora intorno al dilemma tra lavoro subordinato e tutelato, o lavoro autonomo e non tutelato. Ma sta di fatto, che come Castells aveva individuato analizzando la società delle reti, i nuovi lavori sono performanti giacché auto-attivi, un termine che significa autonomia e soprattutto un saper far da sé, una capacità che è una risorsa individuale, comunque antitetica alla subordinazione e indifferente alle tutele.
In verità, come Boltansky e Chiapello ci fanno notare, il nuovo capitalismo, per espandersi, ha assorbito nelle sue disposizioni normative e organizzative proprio le vecchie rivendicazioni del lavoratore subordinato, e, tra queste, le rivendicazioni di autonomia e creatività contro la routine e la subordinazione, per l’appunto. I giovani lavoratori sembrano aver interiorizzato queste rivendicazioni come fattori di mutamento, perché dalle ricerche di questi ultimi anni è emerso come sia abbastanza comune il rifiuto delle caratteristiche di subordinazione di quel lavoro che la vecchia generazione di lavoratori ha scambiato con le tutele sociali e le retribuzioni sempre in ascesa.
Dalle ricerche emerge anche che questo rifiuto dei giovani lavoratori non significa non aspirare alla continuità di reddito o alle tutele. Non vogliono legare le tutele alla subordinazione, è diversa la modalità con cui le rivendicano rispetto alle tradizionali azioni collettive, alle vecchie forme di azione sindacale, alla vecchia politica.
Su questo punto, in particolare, lo Statuto mostra tutti i suoi 50 anni!
Alla subordinazione e agli abusi della subordinazione, lo Statuto ha posto un argine con la rappresentanza sindacale e la tutela del diritto di sciopero che è un diritto individuale a esercizio collettivo, come ha detto lapidariamente Gino Giugni. In altri termini, lo Statuto ha posto dei limiti alla subordinazione permettendo la ribellione, che però è sostenuta dalle rappresentanze sindacali attraverso gli strumenti della contrattazione collettiva con i datori di lavoro, anche loro riuniti in rappresentanze.
La logica politica dello Statuto ha ripreso in un certo senso la logica economica del modello organizzativo taylorista e fordista, dove il presupposto della razionalità organizzativa ha voluto che il lavoratore si adeguasse alla subordinazione quando scambiata con la stabilità del reddito e del posto di lavoro. L’ipotesi connessa era che l’alienazione da lavoro subordinato e routinario potesse essere ridotta da una rotazione di mansioni e di posti di lavoro, ma, si badi bene, all’interno della stessa organizzazione. Lo Statuto ha funzionato, quindi, dando la sponda collettiva della tutela e della rivendicazione sindacale all’individualità di questo lavoratore, e solo nel momento in cui di fatto la sua individualità ha formato un collettivo nella grande fabbrica.
Tutto cambia se si esce da questo quadro organizzativo, se si esce dal paradigma della società regolata sulla base del lavoro nella grande industria manifatturiera in crescita, con contratto permanente nel tempo e con un datore di lavoro generalmente unico. Tutto cambia se non si è più nell’epoca in cui hanno operato insieme l’economia industriale e la politica dello Stato sociale, l’epoca cioè in cui questo lavoro subordinato benché mercificato e controllato, ha costituito la base per la conquista della protezione dei lavoratori nelle condizioni d’insicurezza sociale.
In altri termini riconosciuto socialmente e istituzionalmente come base dell’ordine economico sociale e politico il lavoro subordinato è stato legittimato come centrale nella società e i lavoratori sono stati riconosciuti come soggetti sociali protagonisti di questo ordine raggiunto nelle istituzioni, i suoi rappresentanti sindacali sono stati considerati i mediatori unici tra società e regolazione normativa, i soli in grado di portare a compimento la trasformazione degli interessi individuali in interesse collettivo della classe lavoratrice, come si è già detto.
Un quadro in apparenza ambivalente, come ripeteva Castel, questo del lavoro subordinato monotono e sfruttato, perché, da un lato, conquista che diventa fonte di riconoscimento sociale e istituzionale dei soggetti, dall’altro, contestato perché non lascia spazio alle dimensioni antropologiche come l’autonomia soggettiva e la creatività artigiana.
La questione ora non è più controversa perché i lavori subordinati si stanno riducendo nel mercato del lavoro e ancor di più nelle aspettative dei giovani lavoratori. Il mercato del lavoro non è più regolato socialmente dalla grande fabbrica, i lavoratori precarizzati rifiutano, per la maggior parte, la subordinazione e suoi effetti alienanti, anche se reclamano un reddito continuativo così come è continuativa la vita. È un quadro sociale e organizzativo che rende ormai passato quello che ha permesso l’elaborazione dello Statuto dei lavoratori, che non può dispiegare la logica che lo pervade senza far rimarcare la sua quasi assoluta inadeguatezza al mondo d’oggi.
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