«Adda passà ’a nuttata!»

Massimo Pica Ciamarra

Comunicazioni, accumuli di esperienze, collaborazioni, connessioni, cultura: Homo sapiens è un particolare essere sociale, pur se afflitto da patologie individuali. Dopo un generalizzato lockdown, dopo qualche mese di sostanziali assenze, il verde tende ad emergere dal pavimento delle piazze, il mare diventa trasparente e cristallino, gli animali incuriositi percorrono spazi a loro interdetti. Soprattutto altra è l’aria che si respira, sono altre perfino le immagini della Terra che arrivano dallo spazio.

Da un po’ si ragiona sui temi della distanza sociale: come viaggeremo in aereo, sui treni, sui tram; come ridisegnare le panchine; come accedere alle banche, agli uffici, ai negozi; come lavorare nelle fabbriche; come visitare i musei; cosa diventeranno ospedali, teatri, cinema, stadi. Soprattutto su come eccitare ogni forma di interazioni online. Stupefacente poi che solo oggi qualcuno scopra la positività dei borghi e dei centri minori.

Certo Covid-19 porta ripensamenti, farà combattere concentrazioni e abitudini improprie, ma -superata l’emergenza- la questione non sarà più come distanziarci, piuttosto come aggregarci con maggiore e solidale vigore. Usciti dall’emergenza, superata questa crisi – e per affrontarne altre in futuro – occorre che qualcosa cambi senza che si entri in un medioevo prossimo venturo. Passata la nottata, l’alba del nuovo giorno sarà un risveglio «verso il Post-Antropocene», la svolta epocale. Per gli storici del futuro potremmo essere quelli che la generarono: mutando mentalità, abbandonando ottiche settoriali, diffondendo la visione sistemica.

Sin dal suo avvio, è stato chiaro che la rivoluzione informatica avrebbe avuto conseguenze opposte a quelle della rivoluzione dovuta all’automobile che dovunque ha favorito disgregazioni, dispersioni, isolamenti, autonomie. La rivoluzione informatica ha invece conseguenze diverse nei differenti contesti: altrove ha favorito isolamenti e dispersione; nella nostra «terrà di città» è supporto – finora debole – alla riscoperta dei centri minori, dove aggregazioni e rapporti sociali sono decisamente più intensi che in megalopoli o metropoli. Per rendere però efficiente questa eccezionale e densa rete multicentrica, occorre una politica che favorisca investimenti su qualità e modalità dei loro collegamenti, e anche agili, rapidi ed economici rapporti con i centri maggiori.

Dal suo punto di vista – quello di un economista – per Edward Glaeser principale invenzione dell’umanità è la città (Triumph of the City, 2011 / due anni dopo in italiano), indipendentemente dalle sue qualità spaziali. Lui guarda la città come fenomeno. La cultura mediterranea ed europea però esprime un’idea di città molto diversa da quelle di altre regioni del mondo. The Hidden Dimension avverte che «l’esperienza è percepita attraverso filtri sensoriali disposti secondo condizionamenti culturali: è diversa da quella di chi vive in ambienti culturali differenti» (Edward T. Hall, 1966). Dopo due anni da questa introduzione alla prossemica, nei nostri contesti prese anche forza Il diritto alla città: «forma superiore dei diritti, come il diritto alla libertà, all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat e all’abitare […] Nostro principale compito politico è immaginare e ricostituire un modello di città completamente diverso dall’orribile mostro che il capitale globale e urbano produce incessantemente» (Henri Lefebvre 1968).

Nella condizione contemporanea non è possibile considerare città l’urbano, patologico insieme di monadi che esaltano separazioni funzionali, banalità e assenze di identità. L’“urbano” è l’opposto di densità di relazioni, di commistioni ed intrecci che sono l’essenza delle città: perché aggregano, riducono gli spostamenti non a piedi, consentono a chiunque di scegliere fra confronti ed alternative senza estenuare chi preferisce evitare un particolare giornalaio o barbiere.

L’attuale pandemia spinge quindi a profonde mutazioni nei processi di rigenerazione degli ambienti di vita. Nei nostri contesti Civilizzare l’urbano (2018) significa lavorare per un futuro diverso, rintracciare reti di centralità certo non omogenee, di varia scala e in agevole rapporto fra loro. Ognuna di queste centralità può essere parte della città dei 5 minuti, una rete di «luoghi di condensazione sociale» le cui identità si rafforzano attraverso continui adeguamenti e stratificazioni. Rigenerare gli attuali ambienti della vita impone però visione visionaria, nuove mentalità, impegno da riarmo morale, immense risorse. Lo potranno fare solo comunità convinte che la qualità dei loro ambienti incide positivamente su tutti gli aspetti della vita: benessere, sicurezza, economia, salute, felicità. Un po’ come quell’acuto filosofo francese che, in uno con altre questioni di filosofia morale, ragionava sull’influenza dell’odore dei cornetti caldi sulla bontà umana (Ruwen Ogien, 2011). Ciò può essere vero se – agendo a scala locale – il rigenerare nello stesso tempo è simultanea premessa all’equità sociale e, pur se micro, è ogni volta un contributo all’immensa questione ambientale.

Non si può più ignorare l’intima relazione tra pandemie e qualcosa di quanto fin qui è sembrato progresso e modernità.

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