Affinati sguardi

Leggendo di Charkiv si comprende cosa sia la «cosa umana per eccellenza», insuperata definizione di città di Claude Lévi-Strauss, per Eraldo Affinati. Siamo tra le prime pagine del suo ultimo libro ed emerge con chiarezza la sua idea di città: l’incontro tra persone, la contaminazione.

Filo rosso che determina e avvicina l’essenza di Eraldo Affinati a quella del pellegrino. Pellegrino tra pellegrini. Anima inquieta tra anime inquiete.

«Animula vagula blandula
Hospes comesque corporis
Quae nunc abibis in loca?
Pallidula rigida nudula
Nec ut soles dabis iocos…».

Sono le parole dell’imperatore Adriano di Marguerite Yourcenar. L’anima, ci ricorda «il più umano tra gli imperatori», separata dal corpo diventa inesistente, congiunta al corpo diventa vita. Il pellegrino Eraldo, il letterato Affinati.

Vita dunque come congiunzione di anima e corpo che alimenta un modo di stare al mondo, di essere uomo tra altri uomini. Lo sguardo che incrocia altri sguardi, da questo incrocio e incontro lo scrittore porta alla luce Le città del mondo.

In tutte le città qui descritte (trecento), conosciute, sognate e inventate, c’è sempre la compresenza di tre elementi: la guerra, la descrizione dei luoghi e il significato di essere città.

A volte la guerra è declinata in modo diverso, guerra tra nazioni, guerra tra popoli, guerra per sopravvivere. La guerra come costante del mondo contemporaneo. Ma c’è anche la guerra, le guerre, accantonate.

Affinati con poche parole, a volte con una sola parola, è capace di cogliere il senso più profondo e intimo della città che sta attraversando, fisicamente e mentalmente, capacità sviluppata in anni di insegnamento e di vicinanza a ragazze e ragazzi di tutto il mondo. La capacità di cogliere l’anima delle cose gli proviene da un’attitudine ad ascoltare l’altro, ad osservare ciò che sta attorno, sopra e sotto gli accadimenti dei fatti della vita.

Un libro che si presta alla lettura di molti. Adatto per chi non ha grandi conoscenze letterarie e culturali, ottimo per chi ce l’ha, che presenta livelli diversi di lettura e di apprendimento.

In questo senso, sento di poterlo paragonare all’ultimo film di Wim Wenders, Perfect days.

La pellicola scorre piano ma non lenta e mentre segui le vicende di Hirayama che si ripetono uguali a sé stesse ogni giorno hai il tempo di riflettere su ciò che stai guardando. Nella ripetitività dei suoi gesti e delle sue giornate, le uniche cose che cambiano sono le parti di città che osserviamo giorno dopo giorno e che accompagnano il protagonista al lavoro e le persone con le quali interagisce. Persone umili che svolgono lavori umili, ma proprio per questo eccezionali nella loro ordinarietà.

Le città del mondo si costruisce in modo analogo.

Lo sguardo è sempre lo stesso, uguale per ogni ambito urbano che descrive e racconta, ciò che cambia ogni volta è il contesto e le persone con le quali interagisce. Ed è proprio il contatto umano a cambiare la percezione delle cose e delle persone. Quel «lampo di elettricità intermittente alimentato da non so quale splendore» è lo sguardo di un vagabondo che Affinati incrocia sul colle dell’Aventino a Roma e che Seshat, dea egizia patrona della scrittura, sembra avergli suggerito per far avvicinare anche noi, umili lettori, a quel momento di comunione in cui anima e corpo prendono a camminare insieme.

Il progetto del libro è costruire un nuovo alfabeto urbano. Un alfabeto non più e non solo basato sul rapporto tra le parti, sull’architettura, sulle infrastrutture, sui servizi che la città offre, ma sulla molteplicità delle esperienze umane che la città offre e restituisce, sulle risposte che dà alle nostre domande.

La città è vista, analizzata e restituita al lettore, attraverso la relazione che lo scrittore stabilisce con le persone che vivono in quella città. Ciò che vede e restituisce è sempre collegato alla relazione da cui prende le mosse il racconto e il resoconto. Una vista per conto terzi. Una voce per chi non ha voce e per chi non ha le parole giuste per raccontare il proprio disagio o la gioia di stare al mondo. Una voce per raccontare coloro che consideriamo ultimi e spesso inutili fardelli.

Dirimente è il punto di partenza: come guardi le persone e perché le guardi, o come guardi la città e perché la guardi. Perciò l’inizio della scrittura non s’impatta mai con fogli bianchi da riempire, ma con un materiale umano già carico di vita vissuta, di esperienze, di conoscenza e di realtà urbane cariche di stratificazioni, di storia e di poesia.

Come per esempio a Castel Volturno, «Dove si nasconde la scintilla per risorgere dalle ceneri? Io la trovo negli occhi indomiti del giovane Moses, iraniano paralizzato sul letto ortopedico, al cui capezzale m’accompagna padre Daniele, quando gli chiedo se riuscirà a rimettersi in piedi e lui, ferito e felice, alza le braccia al cielo in segno di vittoria».

O, cambiando radicalmente registro, «Quando mi sarò deciso / d’andarci, in paradiso / ci andrò con l’ascensore / di Castelletto […] scriveva Giorgio Caproni, siglando così l’immagine più bella di Genova, così riflessi del mare sui tetti, del sole declinante nelle circonvallazioni, dei parcheggi sulle terrazze scalcinate, ancora profumata di regno sabaudo nelle architetture dei palazzi che sembrano piantati come pennoni di bandiere sulla prua di un transatlantico in partenza verso l’oceano, ma carica di spezie paradossalmente orientali, sorella randagia dell’imbarcadero dove vengono scaricati i silos coi numeretti stampati sul fianco. Nei carrugi da cui è ritagliato il cielo a scacchi azzurri vidi passare la matrona sognata da Dino Campana…».

Un libro molto privato e coraggioso perché Affinati nel raccontare regala al lettore pezzi della sua vita più intima. In ogni sguardo che incrocia un altro sguardo c’è una parte dell’uomo Eraldo, nella sua restituzione lo scrittore Affinati.

Ma cosa cerca davvero Eraldo Affinati in queste città, conosciute, sognate e inventate?

La risposta a questa domanda sono tre domande.

«Chi sono io?
Chi sei tu?
Come possiamo vivere insieme?».

Ma c’è, più di ogni altra cosa, nascosto tra le parole, dentro ogni sguardo, in ogni suo peregrinare, il desiderio inconfessato d’incontrare la figura del padre, di suo padre, per regalargli quelle parole che non ha avuto, le parole che avrebbe usato per comunicare. Con il mondo e con suo figlio.


Per chi volesse approfondire
Eraldo Affinati, Le città del mondo, Gramma Feltrinelli, 2024

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