Dalla sparizione dell’arte all’era degli NFT, alla crisi del Museo. Condizione sfavorevole o opportunità?
Quando Jean Baudrillard mette insieme i due testi, preparati per una serie di conferenze negli Stati Uniti, che compongono il volumetto La Sparizione dell’arte: Verso il vanishing point dell’arte e Transestetica, era il 1987. Sono oramai trascorsi quattordici anni dalla sua scomparsa e ben trentaquattro dalla pubblicazione di questi scritti. Eppure, oggi più che mai, appaiono quanto mai attuali, oltre che utili, all’interpretazione di un momento storico – quello pandemico – dove tutte le fragilità dei sistemi dell’arte, più in generale dei mondi culturali, sono drammaticamente esplose.
I nodi centrali delle riflessioni del filosofo sono pochi ma ben stretti. Innanzitutto Baudrillard guarda al destino dell’arte che già in quel momento, e a suo parere, è inabissato in ciò che definisce: «eutanasia globale delle forme politiche, ideologiche, e sessuali, della nostra (la sua) società». Non guarda tanto al tema della produzione dell’arte e del suo valore estetico quanto piuttosto alla «logica della produzione di valore [che si associa] alla sparizione dell’arte», intendendo con ciò l’alienarsi del valore estetico in quello di merce.
Capisaldi di tale pensiero sono due icone della storia della cultura e dell’arte: Baudelaire al principio, e siamo alla metà del XIX secolo, e Warhol all’altro capo più di cento anni dopo, dove il primo – potrà sembrare incredibile – per contrastare il fenomeno suggerisce la trasformazione dell’arte in una merce assoluta. In questa prospettiva, il feticismo per la merce messo in pratica da Warhol, l’idea di un’arte più meccanica della macchina, realizzata in serie e fatta d’immagini confortanti ma beatamente banali, equivale all’esasperazione del concetto di rappresentazione, entro il quale lo spettatore è coinvolto da un punto di vista del totale disimpegno. Ancora, prima di passare all’attualità, merita attenzione un ultimo passaggio di Verso il vanishing point dell’arte. Baudrillard a un certo punto afferma: «Oggi […] tutto è liberato, i giochi sono fatti, e ci ritroviamo collettivamente di fronte alla questione cruciale: che fare dopo l’orgia?» per concludere, poi, con un altro quesito che, riletto oggi, mi pare possa essere il centro delle questioni moderne: «cosa si fa dopo l’orgia della modernità?».
Viene spontaneo chiedersi cosa e come avrebbe valutato oggi questo momento storico che vede i mondi culturali in bilico fra un pre e post pandemia. Un’era in cui quella profetica sparizione dell’arte, quell’annebbiarsi della realtà, pare essere stata fagocitata da un uso smodato del digitale, utilizzato più come risposta di emergenza che come opportunità. Si potrebbe affermare senza sbagliare che l’orgia c’è stata…e adesso? Se già nel 1987 tutto si era estetizzato, tutto si era fatto spettacolo, tutto si era generalizzato in cultura, sepolte le avanguardie, a che punto siamo oggi? Emblematico e profetico è l’esempio in Transestetica dell’incontro della Coppa dei Campioni Real Madrid contro Napoli, svoltosi in notturna in uno stadio vuoto e senza pubblico. Baudrillard parla di: «evento sottovuoto, spurgato del suo contesto umano e visibile solo da lontano, televisivamente. Una sorta di anticipazione chirurgica dei nostri eventi futuri: un evento reale minimo, talmente minimo che potrebbe non avere avuto luogo affatto, e un’amplificazione massima sullo schermo».
Difficile non fare un parallelismo con quanto avvenuto nel 2020 e tuttora in corso. Basti pensare alla risposta virtuale di numerose istituzioni culturali e museali che, fra nuovi siti internet e account social, hanno mutuato la propria offerta nella possibilità di esplorare opere, autori, percorsi tematici e tanto altro dallo schermo della propria abitazione. L’incontro fantasma di Madrid va di fatto considerato l’anticamera dell’«after the orgy» e Andy Warhol, con la sua trasfigurazione del banale, più estrema persino di quella duchampiana, quando afferma: «Tutte le opere sono belle, tutte le opere contemporanee si equivalgono, l’arte è dappertutto, dunque non esiste più, tutti sono geniali, il mondo quale è, nella sua stessa banalità, è geniale, e infine, nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per 15 minuti», accredita il brutto che avvince sul bello, l’idea del feticcio, l’idea stessa sottesa a un prima e dopo l’oggetto, il travestimento di ciascuno in personaggio (tiktoktisti, influencer etc…) dove, per dirla sempre alla Baudrillard, tutto è icona e tutto è rito a uso rituale.
Questo lungo discorso per fare una fotografia hic et nunc della produzione artistica nell’ultimo anno, del ruolo degli artisti e del mercato.
Si potrebbe affermare che, nel 2020, l’arte si è definitivamente smaterializzata. Ovvero, anche coloro i quali, fino a poco tempo fa convinti dalla fisicità oggettuale della propria produzione e trincerati e protetti da un sistema (quello dei musei in primis) che riconosce uno status preciso, hanno dovuto fare i conti con il crollo totale di quelle poche protezioni che definivano questo mondo.
Se seguiamo Baudrillard non possiamo non considerare come l’universo digitale o virtuale, venuta meno e all’improvviso la dimensione pubblica dell’arte (le protezioni di cui parlavamo prima) fosse quello più ovvio per accogliere quello delle idee dell’arte. Più banali sono, meglio è avrebbe detto Warhol! E, infatti, è proprio quel mondo che ha offerto diverse sponde. Interessanti per chi ha provato a capire i meccanismi del web, più sciocche per altri (l’importante è non perdere i noti 15 minuti conquistati), imbarazzante in alcuni casi, come per molti musei italiani che non hanno tenuto conto di come certi prodotti per funzionare e per essere bene comunicati dovessero essere concepiti in quel media e non solo posizionati al suo interno.
Schiacciati in una dimensione ingombrante della comunicazione che non richiede interlocutori, gli artisti, a mio parere, sono oggi chiamati a fare i conti con la fine dell’arte – non della storia dell’arte si badi bene – ma con la fine di un modello il cui apice nel secolo scorso è rappresentato dalla figura di Warhol. Insomma, quel momento profetizzato da Baudrillard nel 1987 è arrivato.
Le strade, tuttavia, sono molteplici. Una è quella di un fronte ancora più estremo della sparizione. Un fronte che taglia via definitivamente quel poco di mercato tradizionale che ancora esiste (piccole e medie gallerie, le fiere d’arte) dando definitivamente valore all’assurdo, all’insensato, ossia al concetto stesso di valore. Valgano in tal senso due esempi, notizie di queste settimane. Il primo riguarda Bansky e un suo disegno, acquistato per 96 mila dollari e bruciato a Brooklyn da un gruppo di una società chiamata Injective Protocol ma che, prima di farlo l’ha trasformata in NFT, ovvero in «non fungible token». Stiamo parlando di un fenomeno nuovissimo: la cosiddetta cryptoart, che sposta il valore di un’opera da essa stessa alla sua versione digitale, unica e non più riproducibile e che certamente Baudrillard avrebbe definito come l’avvio di una nuova era iconoclastica.
Seconda notizia: un assegno di 69,3 milioni di dollari è stato staccato per Everydays: the first 5000 days, 2021 del graphic designer Beeple, all’anagrafe Mike Winkelmann, monumentale opera digitale composta da milioni di piccole immagini prodotte negli ultimi 5.000 giorni a partire dal maggio 2007 e tutte compresse in un jpeg, proposta in asta online per due settimane, dal 25 febbraio all’11 marzo dal colosso Christie’s.
Se su Bansky tutto sommato l’opinione pubblica, o quella specializzata, aveva trattenuto lo sdegno, per Beeple non si può dire la stessa cosa. Le polemiche piovono a raffica in queste ore, sotto accusa la banalità del suo lavoro. Se accettiamo l’enunciato della morte dell’arte, non possiamo proprio scandalizzarci di tale aspetto. Anzi, proprio il fatto che sia un collage digitale banale, conferma in pieno tutto il discorso fin qui affrontato. Non c’è più alcuna rivelazione dietro un lavoro (diciamo opera d’arte) ma l’esaltazione, anzi la feticizzazione del concetto di valore, così come già detto.
Chiaramente e tuttavia, tutto questo apre una riflessione sul mercato dell’arte e sul collezionismo. Se sono queste le possibili nuove frontiere dell’arte, allora bisogna chiedersi varie cose. Innanzi tutto: la creazione di un’opera digitale toglie paternità all’artista? Pare di no, ma come considerare la proprietà intellettuale? O il diritto di seguito?
Possibili vantaggi: un’opera virtuale in NFT non potrà mai subire danneggiamenti o deterioramenti del tempo, pertanto rappresenterebbe un vantaggio in termini di manutenzione, senza contare poi l’incredibile risparmio di spazio fisico per un potenziale collezionista.
Insomma, celebrati i funerali, da discutere sul sagrato c’è molto. Ancora, questi fatti pongono al centro del dibattito collettivo il futuro dei Musei. E se un giorno non ci fossero più opere da conservare? Chiaramente è una provocazione, un pungolo che Baudrillard, ad esempio, non tocca nei suoi testi ma che, a ragion veduta, avrebbe potuto fare applicando il ragionamento sulla sparizione ai Musei. Detto ciò, come queste istituzioni hanno reagito alla pandemia lo abbiamo accennato all’inizio. Di come il web sia stato utilizzato malamente anche, e del come senza pubblico non hanno capito che fare va da sé.
Potrebbe sembrare eccessivo ma com’è giunta la morte dell’arte, così è arrivata quella dei Musei. O almeno della loro forma tradizionale. Non basta conservare, valorizzare e mostrare. Ciò cui sono chiamati i Musei del futuro è il riappropriarsi di una funzione sociale e politica. Una funzione che metta al centro la ricerca per dare e creare contenuto ai propri contenuti.
Può sembrare un paradosso ma l’arte, in tal senso, è solo una delle possibilità. Un ritorno alla tecnica, all’artigianato e all’industria è qualcosa che potrebbe fare di questi luoghi dei nuovi baluardi sociali catalizzando forze inattese e imprevedibili. Questa è la seconda via possibile e guarda caso anche di questo aveva parlato Baudrillard. Da qualsiasi lato, concludendo, s’intenda osservare la questione, l’«After the orgy» o la morte dell’arte, più che considerarla una condizione sfavorevole vale la pena immaginarla come un’opportunità. Un’opportunità che, con tutta probabilità, si lascia definitivamente alle spalle il ’900 per scrivere finalmente il nuovo millennio.