Alessandro Leogrande, l’amico e l’intellettuale

Anche se rinnova un dolore tuttora acutissimo ho fatto mia, anzi abbiamo condiviso con tutta la Fondazione Di Vagno, l’iniziativa di Oscar Buonamano, direttore della nostra Pagina’21, di ricordare anche quest’anno l’evento tuttora assai struggente della scomparsa di un amico come Alessandro Leogrande.

Il quale, prima che collaboratore della Fondazione, fu un amico molto caro: anzi, fu quell’amicizia genitrice di un rapporto che sarebbe restato a lungo e avrebbe prodotto grandi cose se non fosse stata strappata come da carne viva. Un giorno di non so più quanti anni fa la telefonata di Maddalena Tulanti, al tempo responsabile della redazione del Corriere del Mezzogiorno, che mi preannunciò che mi avrebbe cercato un «nostro giornalista, molto bravo», tenne a precisare.

Quindi la telefonata di Alessandro, che in verità desiderava solo entrare in contatto con Rino Formica per un’intervista: che ottenne, fu pubblicata e fu interessante, come sempre.

Fu subito simpatia e reciproca, anche perché la mia curiosità su quel che lui pensasse di socialismo e socialisti fu presto assecondata, dando vita ad una frequentazione, alimentata da stima che presto divenne vero affetto.

E che non poteva non trasferirsi in un rapporto, che presto sarebbe divenuto organico, con la Fondazione Di Vagno sempre alla ricerca di cuori e intelligenze immerse nel profondo del Socialismo italiano.

Infatti, nel 2011 chiesi ad Alessandro se gli avrebbe fatto piacere scrivere la prefazione ad un libro, da me stesso curato al quale volevamo assicurare una voce di modernità, dal titolo molto impegnativo Giuseppe Di Vagno e il socialismo italiano. Lo fece, e scrisse pagine lunghe e affatto convenzionali, tuttora non dimenticate.

Nel 2015, poi, scrisse la prefazione del volume sul Carteggio Salvemini-Patrono, dai fondi del nostro archivio storico, curato da Cesare Preti.

Era convinto Alessandro, come noi lo siamo fermamente, che negli anni, a Bari si fosse parlato assai poco, direi quasi nulla e a torto, di Gaetano Salvemini, come avrebbe meritato e che invece lui, benché meno che quarantenne ma serio studioso, conosceva molto bene.

E che ha sostenuto, solo qualche giorno prima del distacco, partecipando direttamente e da pari a pari, ad una discussione con Ernesto Galli della Loggia, nel ciclo da noi organizzato per i 60 anni dalla scomparsa di Salvemini.

Infatti, conclusa la discussione nell’Aula Starace dell’Ateneo barese, ci salutammo, lui diretto a Lecce per altre fatiche intellettuali mai pensando nessuno di noi che avrebbe potuto chiudere il conto con la vita dopo aver parlato di una delle più grandi curiosità del suo pensiero: Gaetano Salvemini, certamente uno dei più autorevoli pensatori del novecento.

Sicchè, quando solo qualche giorno dopo, lancinante come una saetta, avemmo notizia che Alessandro ci aveva lasciato per sempre dolore e smarrimento si rincorsero all’unisono e veloci: perdevamo una persona cui avevamo imparato a voler bene e alla Fondazione Di Vagno veniva a mancare un punto di riferimento, una speranza per le sue idee e i suoi programmi futuri assolutamente preziosa.

Era accaduto anche, nel corso dell’estate precedente quel tragico novembre, che lui ed io ci fossimo ritrovati in un’anonima trattoria nel centro storico di Roma, conosciuta da Filippo Giannuzzi e da qualche altro mezzo isolano come lui!, per ragionare (intorno a sobrie portate di mangiare sardo) al ruolo che ad Alessandro sarebbe stato riservato come membro della governance della Fondazione: assai poco importando che questo avrebbe potuto essere solo da remoto, come abbiamo imparato a dire e soprattutto a fare assai più agevolmente, grazie al signor Covid.

E infatti, ci dicemmo che le Lezioni Salveminiane si sarebbero rinnovate ogni anno e con la sua direzione, e sarebbero divenute un punto di forza del programma annuale della Fondazione che solo nei mesi successivi a quel novembre avrebbe assunto la denominazione, che ad Alessandro sarebbe molto piaciuta, di Granai del sapere.

Il che sarebbe accaduto, ed accade infatti, non perchè – come pure è accaduto – che in Puglia «ci sia stato troppo Gramsci e nessun Salvemini» e meno che mai per una rivincita, per quanto tardiva, verso «gli odiati comunisti» (non c’è mai stata ombra di anticomunismo fra noi!), ma solo per la ferma e comune convinzione che la formazione delle giovani generazioni a senso unico altro non avrebbe potuto procurare che il contrario di quella «cultura una e plurale» nella quale credevamo entrambi e che ci aveva fatti ritrovare.

Non dirò nulla di Alessandro intellettuale, scrittore giovane e fra i primi in Italia, di filosofo del meridionalismo erede di grandi Scuole e non di occasione, e di tanto altro.

Altri lo hanno fatto e lo stanno facendo in queste stesse ore sotto l’impulso di Oscar Buonamano cui, a nome della Fondazione riservo gratitudine assai profonda e sincera: e lo faranno assai meglio di quanto possa fare io.

A me tocca solo l’impegno che la Fondazione Di Vagno, sono certo, saprà mantenere: non dimenticare Alessandro, soprattutto farlo vivere, e a favore in particolare della nostra gioventù sulla quale, anzi, ha esercitato grande fascino e che non a caso, come noi del resto che giovani non siamo più, lo hanno sentito «come uno di loro»; riscoprire e divulgare molte delle cose da Lui scritte negli ultimi tempi, in particolare, assicurando a quegli appunti, a quei saggi, a quegli articoli per giornali o riviste quella lettura organica e d’insieme che restituirebbero un autore giovane ma ormai maturo, dotato di quella visione, capace di traguardare l’orizzonte il più lontano possibile intorno alle grandi questioni di cui è intessuta la società contemporanea ma della quale forte s’avverte la mancanza, guarda caso, proprio fra coloro che dovrebbero possederla di più: le nostre classi dirigenti, e a tutti i livelli.

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