Alexandre Dumas vince la sfida degli ascolti in tv

Nel mio lavoro di analisi dei prodotti televisivi mi sono dato una regola: se una fiction supera una certa soglia di audience è il caso di occuparsene. La soglia per la fiction di prima serata di una rete generalista è il 23%. Sia chiaro, nulla di scientifico, solo una scelta personale.

Certo occorre tener conto anche di vari fattori, come la complessità del tema del racconto, della maggiore o minore popolarità/notorietà della storia dei personaggi e degli interpreti. Ma, come metodo del tutto personale, ho posto il 20% come risultato normale per una prima serata di una rete ammiraglia, il 23% come un bel successo, al di sopra qualcosa di speciale, qualcosa che, al di là delle valutazioni qualitative (che si devono fare), è riuscita a toccare certe corde, a cogliere certe esigenze, che contiene un quid che è importante scoprire. Se poi si va molto oltre il 23% e si arriva verso il 30%, allora la questione diventa davvero importante.

È il caso del nuovo Conte di Montecristo che è arrivato appunto alla terza puntata al 27% (5.300.000 gli spettatori) su Rai 1 e il lunedì. Non solo batte, ma surclassa Il grande fratello delle rete diretta concorrente. La faccenda non è affatto semplice.

Perché questa ennesima versione del romanzo di Dumas, a cui cinema e televisione hanno attinto spesso e volentieri, non è affatto entusiasmante. La confezione è sontuosa soprattutto negli sfondi: il lungosenna e i palazzi di Parigi (in parte ricostruita a Torino), i borghi marini con le viuzze e le spiagge del mediterraneo francese e toscano (ricostruiti a Malta). Ma sotto questo vestito…

Nonostante il nome illustre del regista e la sua prestigiosa carriera cinematografica si fatica a trovare una rilettura davvero originale del romanzo. August ha dichiarato che la sua intenzione era di «far emergere che la vendetta non aiuta nessuno e che Edmond Dantès è un uomo divorato da una forza distruttiva», ma nella serie non si manifesta una traccia di questa interpretazione.

Se la regia non brilla e si dilunga spesso in inquadrature insignificanti, anche le interpretazioni non sembrano all’altezza della fama e della indiscutibile bravura degli attori. Jeremy Irons propone un Faria che si sbraccia continuamente come un attore da filodrammatica che voglia attirare l’attenzione su di sé; un interprete sempre originale come Riondino appare incredibilmente scolastico; Guanciale sembra compiaciuto nel giocare il doppio ruolo che il racconto gli assegna; Sam Clafin non riesce a esprimere quel tormento di cui ha parlato il regista, un po’ meglio fa solo Ana Girardot nei panni di Mercédès Herrera.

A questo punto non si può evitare il problema da cui siamo partiti.

Come si spiega il successo di pubblico? Cosa ha questa serie, qual è il quid di questo Montecristo che attrae cinque milioni di italiani?

Una risposta possibile mi è venuta da una conversazione con un’amica che si occupa della fiction per Mediaset. La gentile e attenta signora mi ha fatto notare un dato sfuggito ai più e trascurato dall’informazione. Nelle serate del 26 e 27 dicembre scorso Canale 5 ha messo in onda in due parti una versione cinematografica di Montecristo realizzata da due registi francesi, Delaporte e De La Patellière e interpretata da Pierre Niney e Pierfrancesco Favino. Ebbene in quelle due serate non particolarmente adatte a una simile proposta, anche quel Montecristo ha toccato il 20% di audience che, per un settore da tempo in difficoltà come la fiction di Mediaset, è un risultato eccellente.

A questo punto mi sembra plausibile una spiegazione che spero non sia troppo semplicistica.

Mi viene il dubbio che, al di là della qualità non sempre eccelsa delle versioni cinetelevisive ciò che continua a sedurre il pubblico sia proprio il plot, la trama del racconto, il semplice desiderio di vedere come andranno avanti le cose, come si scioglieranno i nodi della storia. Insomma, a vincere la serata non è il regista o gli attori della nuova versione ma solo il vecchio Alexandre Dumas.

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