Due presidenti, due narrazioni, due progetti politici alla Casa Bianca.
Biden sceglie l’identità plurale per cambiare il Paese: molte donne, ispanici, neri. La sfida di un riorientamento della superpotenza.
Il 20 gennaio alle ore 12:00 Joe Biden si insedierà come il 46° presidente degli Stati Uniti al posto di Donald Trump. Ma tra i due non ci sarà un normale passaggio di consegne. Non perché Trump molto probabilmente diserterà la cerimonia di investitura del rivale o perché si prepara a una lunga opposizione con l’obiettivo di ricandidarsi (se ci riuscirà) tra quattro anni. La ragione della differenza rispetto al passato consiste in ciò che i due presidenti rappresentano. Trump è il presidente che può raffigurare la crisi della politica arrivata al potere. Biden spera di rappresentare la risposta alla crisi.
In entrambi i casi, lo sfondo sul quale decifrare queste elezioni sembra essere quello della crisi come paradigma della tarda modernità. L’attentato alle torri di Manhattan, la crisi finanziaria del 2008-9, la pandemia del 2020, sono avvenimenti che vanno interpretati come una sequenza che da vent’anni sta rimettendo in discussione il modello di sviluppo e di democrazia. In un recente saggio breve il prof. Sorice¹ ha segnalato come persino le «formule più innovative di partecipazione abbiano subito l’impatto della crisi». Biden, in queste settimane, ripetete che questo è il momento di «unire, curare, guarire». Sembra la metafora e il progetto della sua presidenza.
Se la parola d’ordine che ha sintetizzato l’ascesa di Trump è America first, il simbolo di una concezione sovranista e populista del Paese, la parola d’ordine di Biden potrebbe essere: Americans first. Uno slittamento semantico che può segnare la profonda discontinuità con il predecessore, ma anche una certa continuità. American first contro America first: due narrazioni, due presidenti, due visioni del mondo che si sfidano. In ogni caso si tratta di difendere la superpotenza da una crisi sanitaria, sociale, economica, politica che l’ha investita. In questa terra di mezzo discontinuità e continuità si scontreranno e incontreranno.
ovremmo cercare di capire Trump. Dopo gli anni in cui si sono stati promossi la globalizzazione e il neoliberismo, quando gli effetti hanno cominciato a ritorcersi contro coloro che avevano cominciato (gli Usa e l’occidente) molti americani si sono rinchiusi nella difesa dello stato nazionale, nell’anticosmopolitismo, nel populismo e nel sovranismo per cercare di mantenere il ruolo e il reddito accumulati. Trump è stato il leader che ha interpretato questo riflesso difensivo, la paura di un cambiamento sfuggito al controllo. La politica mainstream (Hillary Clinton) era prevedibile, forse affidabile, ma non rappresentava ciò che molti americani volevano: l’illusione di una difesa e di riprendere il controllo della propria esistenza. Dovremmo ricordare l’insegnamento del sociologo americano Wright Mills² sull’origine della crisi: è fondamentale il presentarsi di un sistema di valori minacciato. Quando ciò in cui credi viene percepito in pericolo, il legame sociale si indebolisce, emergono l’ansia, lo smarrimento, la frustrazione, la rabbia. La sfiducia è connessa al timore di un declino del proprio stile di vita, che coinvolge consumi, consuetudini, comportamenti, credenze, impoverimento materiale e sociale.
Si tratta di temi che i sociologi conoscono bene come la deprivazione relativa o l’incongruenza di status. Quest’ultimo viene avvertito quando si crea uno squilibrio tra le posizioni che ciascuno di noi occupa nelle diverse gerarchie sociali (lavoro, marito/moglie, genitore, membro di una associazione, di una chiesa o di un partito etc.) e le aspettative collettive collegate a quelle posizioni. Un esempio sono i laureati con un basso reddito, che in Usa hanno votato Biden. Il conflitto che divide l’America si può definire come la risultante di situazioni oggettive e di percezioni sociali. Questa dimensione sociale quasi attendeva un leader che sapesse trasformarla in una identità attiva, che sapesse imprimerle una forma politica riconoscibile, che garantisse visibilità e accesso alla più alta istituzione del Paese.
La rivendicazione di rappresentanza dell’America che si percepisce perdente, dimenticata, sacrificata ad altri interessi, e che vuole tornare a pensare soprattutto a se stessa, ha un nome: Donald Trump. E questa identificazione spiega il fatto che Trump abbia ottenuto nella sconfitta più voti dell’anno in cui vinse le elezioni. E rende ancora più rilevante la vittoria di Biden che l’ha staccato di quasi 7 milioni di voti nel voto popolare. Più delle idee, più della organizzazione, nell’ascesa di Trump ha contato la capacità di presentare un’America che si sentiva senza voce.
In questa prospettiva, il primo problema che la presidenza Biden incontrerà sarà quello di sostituire un leader che ha saputo creare e radunare un’ampia base elettorale, le ha saputo offrire quello che inconsciamente cercava e che lo ha accettato come portavoce. La vera sfida di Trump al sistema non è avvenuta sul piano della politica: in fondo il presidente uscente ha radicalizzato la tradizionale politica repubblicana. L’atto dirompente di Trump invece è stato trasformare la figura del presidente nel presidente personale e la sua narrazione e legittimazione. È quella che gli studiosi definiscono representative claim, la rivendicazione di rappresentanza.
L’uomo politico, in questo caso, non agisce come il rappresentante tradizionale, che riceve la delega a sostenere gli interessi della sua base elettorale. Nella rivendicazione di rappresentanza contemporanea ha un ruolo fondamentale il potere simbolico: il leader costruisce, sceglie con una azione performativa il suo elettorato. Lo costituisce come audience, le offre parole d’ordine che hanno risonanza tra i rappresentati. Si sintonizza con sentimenti e credenze che sono familiari a quel pubblico. Questo leader agisce più come imprenditore del consenso, un attore che recita il copione che il pubblico si aspetta. Ne insegue pulsioni e emozioni. Il discorso del leader evoca, raccoglie l’audience. Si offre come uno di loro, saltando ogni mediazione istituzionale e partitica.
Il professore Mastropaolo spiega che «radunare una constituency è un’azione fondamentale per la rappresentenza». La professoressa De Rosa, in uno studio sul M5S, osserva che il movimento utilizza «l’accountability come representation claim» e costruisce «intorno al claim dell’onestà la propria constituency»ᶾ. Nella rivendicazione di rappresentanza, quindi, non contano tanto i fatti quanto la capacità di selezionare il proprio pubblico e sapergli proporre un sistema di orientamento e guida. La narrazione, l’immagine, il simbolico sono decisivi in questa strategia. Trump, infatti ha trasmesso attraverso social media e tv una definizione della realtà americana che per molti elettori è diventata scontata. Era utilizzata di norma per interpretare gli eventi e diventava norma, cioè fonte di legittimazione riferita a una identità in cui molti si sono riconosciuti. Quella di Trump è stata una world building enterprise. Trump quindi è il prototipo della leadership che asseconda, compiace l’audience in una relazione quasi commerciale: l’attore vende ciò che il pubblico desidera. Nello stesso tempo ha spinto i suoi a conservare e difendere desideri, aspirazioni, interessi, valori che sono consolidati perché interiorizzati e quindi considerati legittimi. Ha difeso un certo senso comune («L’America difende il mondo e io per questo perdo il lavoro»), ha alimentato paure («Gli immigrati vogliono rubarci il posto»), ha dato voce al non detto («Le élites fanno solo i loro interessi e si arricchiscono»). Si tratta di una leadership che istituisce la sua constituency e nello stesso tempo insegue il pubblico: un leader-follower.
L’arena pubblica diviene un mercato del consenso in cui il leader mette all’asta la sua offerta di senso, la sua definizione della realtà che raduna, attiva, orienta i fan. Non a caso Trump per anni è stato produttore e presentatore di uno show televisivo di successo. Ma la sua è stata un’interazione-relazione plebiscitaria, unidirezionale, tipica del broadcasting televisivo tradizionale su cui si fonda l’identificazione tra un popolo-audience e il leader-performer.
La leadership di Biden è incardinata su un modello diverso: il leader che promuove una visione della società migliore. Il presidente torna ad assumere il ruolo di guida che sprona la collettività a realizzare un progetto che dovrebbe rendere più degna e inclusiva la società. Biden aspira ad essere un leader propositivo e innovativo come lo è stato Obama. Egli tende a rappresentare il ritorno di una politica competente e professionale, ma questa impostazione potrebbe esporlo a un’opera di logoramento e di delegittimazione da parte non solo di Trump, ma anche degli elettori che si sono riconosciuti in una leadership conservativa e confermativa dei loro desideri e delle loro paure. Del resto Biden difficilmente potrà affidarsi solo alle politiche concrete che attuerà per quanto siano indispensabili. Replicare a una politica simbolica contando solo su una politica sostantiva, potrebbe non essere sufficiente. Il rischio è di perdere la sintonia con il sentire diffuso dell’opinione pubblica: non comunicherebbe un sistema di orientamento e di guida che sostituisca quello di Trump.
Una partita decisiva si giocherà, dunque, nella costruzione simbolica della realtà sociale. Le misure legislative, gli atti di governo, avranno un ruolo importante ma non esclusivo. Se the Donald ha impersonato il presidente personale che parla direttamente al suo pubblico, Biden deve formulare una risposta simbolica differente.
Il nuovo presidente, quindi, dovrà essere un legittimatore: deve comunicare una nuova definizione della realtà, disegnare un’identità, renderle valide, e incorporarle nell’universo simbolico di un’America sfidata su molti fronti. Biden sembra averlo compreso, anche se procede con una calma che vuol significare forza. Trump lo ha intuito e ha ingaggiato con lui un duello per l’attenzione: il braccio di ferro ingaggiato sulla legge degli aiuti per l’epidemia, frutto di un faticoso compromesso tra repubblicani e democratici al Congresso, è stata una mossa per dirottare su di lui, su quello che fa lui, l’attenzione dell’America. Infatti ha rilanciato: sono pochi soldi, ha detto, bocciando la resistenza dei repubblicani. Trump poi ha dovuto cedere, restituendo parte dell’attenzione al nuovo presidente. Ma è stato l’anticipo del futuro.
Biden, del resto, quando ha nominato la sua squadra di governo ha evitato di insistere sui meriti professionali, sulla competenza e esperienza dei prescelti, che pure ci sono. Ha invece puntato sulla identità dei nominati raccontata dalle loro storie personali. Al punto che qualche esponente della sinistra democratica ha scritto che «con l’identità non si mangia». Sono racconti che evocano il mosaico etnico, culturale, politico dell’America di oggi: molte donne, ispanici, neri, un omosessuale a capo di un settore fondamentale per gli investimenti pubblici come le infrastrutture.
Per la scuola ha scelto il figlio di emigrati portoricani diventato preside a 28 anni e poi capo della scuola del suo stato del Connecticut: a lui sarà affidata la scuola pubblica e l’educazione al tempo del Covid. Biografia simile per il nuovo ministro della salute: emigrato cubano diventato avvocato e poi capo della Procura della California dopo la Harris.
Biden sembra proiettare una identità sociale che rappresenta i molti volti dell’America. Il messaggio sembra voler dire: scelgo persone come voi per restituire agli americani ciò che hanno perso con Trump. Invece di negarlo, Biden investe sul multiculturalismo. Offre all’America i suoi tanti racconti. Ispanici per la prima volta al governo. Neri in posizione chiave. E molte donne, che rappresenteranno il vero architrave del suo governo.
Donna la vice presidente, Kamala Harris, donna per la prima volta nella storia americana il segretario al Tesoro, Jellen, donne in posizioni di comando. È il rovesciamento dell’impostazione di Trump che ha puntato sulla stigmatizzazione di settori sociali (immigrati, neri, talvolta le donne), vale a dire, secondo il sociologo Erving Goffman⁴, nella attribuzione di segni distintivi negativi a persone o gruppi per favorirne la disapprovazione sociale, l’isolamento, l’esclusione.
Trump si è esplicitamente richiamato a un nazionalismo razziale, si è rivolto a quella parte della popolazione bianca preoccupata di perdere il primato, ha dato credito alle tesi dei suprematisti bianchi. Biden oppone alla stigmatizzazione di Trump, che segmenta la società, un’identità plurale. Definisce l’identità americana attraverso le differenze: punta a un coinvolgimento di tutti i gruppi sociali nella responsabilità di guidare gli Usa. Scommette che l’America delle differenze si riconosca nel governo delle differenze.
Se la leadership di Trump è personale, Biden sarà un presidente che guida e ascolta, ma sono gli americani la fonte e i destinatari della politica. «Gli americani hanno parlato» così Biden ha salutato l’esito elettorale. Il discorso di Biden sembra spostare il baricentro sociale verso il soggetto, cioè verso le strategie degli individui verso la collettività. Il discorso di Trump ha posto al centro il mercato e l’economia anche durante l’epidemia. E con il mercato la Casa Bianca, fino al punto da assumere una postura autoritaria, a tratti sovversiva. Gli individui sono lasciati soli, liberi (se possono) di decidere la loro protezione dal rischio virale. Ma riuniti nell’affidarsi al potere del presidente.
Il discorso di Biden invece scommette sugli americani: i soggetti che hanno dovuto affrontare quasi da soli la crisi economica, la pandemia, la crisi climatica. E che ora devono essere protetti e sostenuti. L’immagine non è tanto l’America come per Trump: simbolo di un paese omogeneo, indifferenziato, nonostante l’individualismo estremizzato, con-fuso con il suo presidente. Ma gli americani con le loro diversità di genere, di etnia, di cultura, di opinioni politiche, che però ritrovano l’unità in una identità, in valori condivisi, in un senso dello stare insieme ricomposti grazie a un lavoro comune. La Casa Bianca è un sistema di significati di una comunità di destino prima che il luogo del potere. Biden opera quello che i linguisti definiscono un re-framing: rovescia l’immagine di «America first» in «Americans first», rovesciandone percezione, significato, modello di comportamento.
In questo modo Biden non trascura la questione della legittimazione. La legittimazione elettorale è ovviamente fondamentale, ma Biden sembra sapere che in futuro per affrontare un partito repubblicano sconfitto ma pronto ad ostacolarlo e Trump, che farà di tutto per logorarlo e ripresentarsi, deve radicare la legittimazione del suo governo. In una società la legittimazione svolge una duplice funzione: da una parte, secondo Berger e Luckman⁵ «spiega l’ordine istituzionale attribuendo validità ai suoi significati oggettivati», dall’altra «lo giustifica conferendo dignità di norma ai suoi imperativi pratici». Il nuovo presidente sembra avere individuato nel lavoro di unificazione del Paese un primo imperativo.
Trump è stato il presidente che non ha inventato la divisione dell’America, ma se ne è servito e ha perseguito una divisione dall’alto dell’America. Biden sembra voler seguire il processo opposto: unire dal basso. Vuole favorire la coesione sociale attraverso un confronto tra diversi. Come ha detto lui stesso in una sintesi del suo programma: «Unire, curare, guarire».
La cura che Biden sembra indicare per gli Stati Uniti sembra poggiare su due vaccini politici tra loro interrelati: la pluralità e la prossimità. La politica si è sempre fondata sulla dicotomia individuale-collettivo, particolare-universale, declinando la relazione tra volontà-interesse individuale e volontà-interesse generale. Il nuovo presidente sembra consapevole che questa concezione bipolare sembra non essere più in grado di dare conto di quello che si muove e cambia nella società. Il concetto di plurale viene sempre più inteso, spiega il prof. Giorgio Grossi nel suo ultimo libro⁶ come una nozione intermedia tra individuale e collettivo. Indicherebbe una relazione allargata, anche se limitata, che va oltre la famiglia e viene prima della generalizzazione collettiva. Sono i gruppi, i legami che gli individui riescono a gestire personalmente. Si tratta di assegnare valore e significato a una dimensione di vicinanza e di controllabilità che sembra una reazione a un mondo globalizzato e digitalizzato.
Quella che entra in campo con Biden è l’America delle associazioni, dei gruppi sociali circoscritti che possono agire accanto alle istituzioni politiche mainstream. Questa dimensione di «insiemi plurali», come li definisce Grossi, ha una caratteristica che oggi potrebbe rivelarsi preziosa: fa coesistere al proprio interno protagonismo individuale e assunzione di responsabilità, identità personale e identità del noi, confronto paritario e decisione, interscambio e condivisione.
I gruppi sociali sono cioè campi di impegno politico che rientrano nella tradizione americana del civismo. Molti dei membri del governo scelti da Biden possiedono questa biografia: persone impegnate in associazioni civiche, che hanno lavorato quasi sempre nel pubblico, che hanno il profilo di civil servant. Non hanno partecipato al classico gioco delle porte girevoli di Washington: si esce dal pubblico per andare nel privato (guadagnando molto), si lascia il privato per andare nel pubblico (guadagnando prestigio e potere). Biden punta su donne e uomini che hanno compiuto la scelta di lavorare per le loro comunità più o meno ampie, non per il business. Che nelle comunità hanno lottato e vinto battaglie. Prevale l’idea del soggetto al servizio della propria collettività, che viene chiamato a servire la nazione. È l’etica dell’esempio.
Il secondo vaccino nel quale Biden e la Harris sembrano credere è la prossimità. Il presidente ha lo scettro, ma promuove la cooperazione, la collaborazione, la sperimentazione, prova a combinare l’auto-realizzazione del soggetto e l’auto-organizzazione sociale. È una prospettiva lontana dalla logica normativa e rappresentativa di Trump. In questa concezione, la politica non dice ad altri cosa dovrebbero fare, ma sembra invitare diversi soggetti a partecipare alla produzione delle politiche pubbliche con il governo. Sembra di udire l’eco di un’altra tradizione americana, quella del comunitarismo e del legame individuo-comunità. Si ha come l’impressione di sentire in lontananza la critica di Michael Sandel sul soggetto «disincarnato», vuoto, di John Rawls e la sua teoria della giustizia⁷. Biden, infatti, sembra incarnare la politica in persone che i valori li vivono prima di rappresentarli. Meglio: li rappresentano vivendoli. La società non è solo un’eredità da raccogliere e proseguire, è un progetto politico, un’idea a cui dare corpo. E per riuscirci occorre il contributo di tanti protagonisti anche dei repubblicani. La cura politica sembra assomigliare alla cura sanitaria che Biden ha indicato per il Covid-19: la sfida all’epidemia si vince con la partecipazione di tutti e tutti sono chiamati a attivarsi. Vale anche per l’America.
Per queste ragioni Biden difficilmente impersonerà il secondo atto dell’obamismo. Riceverà l’eredità di Barack, ma seguirà un cammino che diventerà sempre più originale. Sembra chiaro che Biden e la Harris concepiscono la realtà americana nel modo della pluralità, cioè della differenza di situazioni e gruppi sociali, il mosaico che la politica si incarica di affrontare e armonizzare affinché dal puzzle emerga alla fine il disegno dell’America. L’identità produce legittimazione, cioè una definizione della realtà sulla quale c’è consenso e che diventa relativamente naturale. È vero che questa visione corre il rischio di arenarsi nella frammentarietà della realtà, nella conflittualità latente della diversità, nella faziosità della politica americana. Ma il voto americano mostra che l’America di oggi è già frammentata, divisa, che l’unitarietà della rappresentanza è già in crisi. E che forse la stessa rappresentanza deve essere ripensata per essere adeguata al nuovo contesto sociale, economico, culturale degli Usa di oggi. Il modello del nuovo presidente integra le forme di auto-organizzazione del sociale con le forme della democrazia. L’idea della prossimità e della pluralità potrebbero fornire un possibile modello di agency.
Un elemento che conferma il nesso tra identità e legittimazione è la prima linea del nuovo governo Usa composta da donne come mai forse nella storia americana. Un’altra immagine-narrazione che incarna una politica. Non si tratta solo di un riconoscimento all’elettorato femminile che ha contribuito in maniera decisiva alla sconfitta di Trump. È una mossa strategica che sembra di poter comprendere meglio all’interno della logica che ispira Biden e la vicepresidente Harris.
Il nuovo presidente attua uno spostamento verso la pluralità, vale a dire verso le soggettività, le differenze, le prossimità in cui tanti americani si impegnano ogni giorno. In questo quadro le donne diventano protagoniste. Trump ha creato una audience massificata. Guardava all’America come a un sistema centripeto in cui c’è un principio organizzatore e un solo circuito di autorità-legittimazione: lui. Biden fa il contrario: sceglie la pluralità, la differenza. Guarda all’America come a un sistema policentrico, potremmo dire una rete in cui la Casa Bianca è il centro autorevole, legittimante, dialogante con altri centri. Ed è qui che incontra l’altra metà dell’America: le donne.
Ma chi sono le donne che Biden e la Harris chiamano in posizioni di responsabilità? Esse sembrano avere oltrepassato il modello di Hillary Clinton. Se la Clinton rappresentava l’ambizione femminile di rompere il «tetto di cristallo» e stabilire una reale parità al vertice dello Stato come compimento di un lungo cammino di emancipazione, Kamala Harris e le altre sembrano puntare a un obiettivo diverso, più ampio. Esse sembrano percepire se stesse come donne che cambiano la società non solo per se stesse e le figlie, ma per tutti. Anche per i maschi, per i figli. La generazione femminile cresciuta durante le battaglie delle madri oggi sembra considerarsi un «soggetto generale» del mutamento sociale. Da decenni il pensiero femminista ha elaborato una critica profonda alla società maschile, offrendo un contributo riflessivo rilevante. L’elemento interessante di questo percorso intellettuale però consiste nel fatto che la cultura femminile oggi è portatrice di una razionalità e affettività critica indispensabile probabilmente per gestire la crisi rispetto alla razionalità calcolatrice maschile, responsabile dei rischi e delle emergenze che viviamo.
L’entrata in scena di una classe dirigente femminile può essere connessa alla crisi della coesione sociale americana. Il duro conflitto della campagna elettorale, la polarizzazione della società, la sua frammentazione richiedono a chi governa qualità nuove. Le donne possiedono uno sguardo in cui ciascuno è singolare, ciascuno ha un proprio valore, ciascuno ha bisogno di una cura particolare. Quella femminile è una intelligenza emotiva attenta alle relazioni, ai segnali meno visibili, alla diversità dei bisogni e delle aspettative. Nella società complessa e altamente differenziata dell’America, sapere vedere l’insieme e il differente è imperativo per quanto difficile. Inoltre, il conflitto è diffuso, più che mai serve l’empatia verso gli altri, anche verso l’avversario per capirne ragioni e sentimenti. Occorre comprendere diverse sensibilità, sintonizzarsi con un sentire sociale parcellizzato e sofferente. Sapere tenere insieme ciò che è diviso, è un altro valore femminile di cui l’America ha bisogno. La capacità delle donne di distinguere ciò che è importante, consente di trovare punti d’incontro e mediazioni percorribili. A stabilire regole da condividere.
Il modello femminile di leadership, quindi, sembra rispondere alla logica del tempo nuovo. Il presidente si indirizza verso una pluralità che incarna la politica per costruire una cornice di senso comune. Le donne possono assicurare una partecipazione creativa che preserva i legami e aiuta a trovare le soluzioni, perché le competenze delle donne, la loro professionalità, è molto alta. Del resto, nel suo sintetico programma (unire, curare, guarire) Biden ha compreso che la cura non è più un programma privato, ma diventa un progetto sociale e politico. L’identità femminile così sembra rappresentare un simbolo carico di significato, di emotività, di valore professionale per la società. Il simbolo indica una ricerca di senso. Offre un’immagine riassuntiva della realtà. Il simbolo rende percepibile l’idea che si ha del mondo. E questo simbolo in America oggi ha il volto di Kamala Harris e delle altre donne, le americane chiamate a guidare la superpotenza.
Biden ha di fronte un problema di non facile soluzione con il capitalismo americano. Innanzi tutto, c’è da tenere presente che il nuovo presidente è quello che in Italia definiremmo un riformista, un progressista moderato. I suoi punti di riferimento saranno l’esperienza dei presidenti Clinton e Obama. Qui emerge un primo quesito che ci aiuterà a capire la traiettoria di Biden. Il nuovo presidente cercherà di evitare gli errori di Clinton, che pure cha assicurato all’America anni di crescita e di occupazione? La domanda pone la questione del rapporto con il neo liberismo. Il prof. Moini nel suo recentissimo libro⁸, spiega che c’è un immaginario sulla terza via di Clinton e Blair che non sempre corrisponde alla realtà. La Terza via negli anni ’90 ha avuto un rapporto ambivalente con gli anni ’80 in cui ha governato la destra. Clinton, per esempio, con il Social investment ha avviato l’esperienza di una riforma che potenziava il sistema di protezione sociale con l’obiettivo di adeguarlo ai rischi e all’innovazione tecnologica.
Grazie a queste politiche Clinton superò il pregiudizio dell’ideologia liberista che vedeva nella spesa pubblica solo uno spreco: il presidente democratico identificò una spesa pubblica produttiva. Tuttavia il limite e l’ambiguità della politica di Clinton (e di Blair) deve essere ricercato altrove. Innanzi tutto, secondo Moini, il sistema della governance ha opacizzato la dimensione conflittuale della politica. Di conseguenza il modello della politica come scontro tra destra e sinistra è apparso uno strumento del passato, mentre è stato promossa una forma di governo più pragmatica e tecnocratica.
Più che un confronto tra parti diverse, la politica con la Terza via è diventata, secondo la critica di Chantal Mouffe⁹ una gestione neutrale degli affari pubblici. In quegli anni prese il via, secondo gli studiosi, la fase della depoliticizzazione. Un secondo errore fu l’avere convalidato il primato del mercato, dando la precedenza alla valutazione economica sui giudizi politici. Vi è stata cioè una mercatizzazione della sfera pubblica attraverso lo Stato, si è consolidata l’idea di società basate sulla competizione. Come hanno spiegato P. Dardot e C. Laval¹⁰ il neoliberismo non ha solo definito «un nuovo regime di accumulazione dei capitali, ma in senso più ampio, una nuova società». Una società egemonizzata dal mercato in grado di indicare ai governi e alla pubblica opinione il possibile e l’immaginabile, dettando in questo modo un orizzonte di senso senza alternative entro il quale agire.
Biden ha vissuto da protagonista quella stagione. Ma adesso proprio lui sembra chiamato a seguire una rotta diversa. A Biden, del resto, potrebbe non convenire neutralizzare il conflitto che dà identità. Allora come declinerà la parola unire del suo programma? Contrariamente alle previsioni di alcuni analisti, cioè un Biden centrista che stipula compromessi al ribasso, potrebbe emergere un leader che mantiene aperto il canale del dialogo con la destra senza rinunciare al proprio profilo progressista. Biden non può sentirsi rinfacciare quello che la Thatcher disse di Blair: «Li abbiamo costretti a cambiare il loro modo di pensare». E le prime mosse del presidente, del resto, sembrano riconoscere il ruolo centrale dell’identità nella società contemporanea. Alla nuova Casa Bianca potrebbe convenire pianificare un conflitto circoscritto, controllato, mirato per trovare un accordo.
Una modalità di gestione del conflitto, osserva il professore Sorice, potrebbe essere la partecipazione¹¹, che sembra avere molto rilievo nello stile di governo di Biden. Una prima prova di questa tattica si è vista nell’accordo di fine anno per gli aiuti legati al Covid. L’approccio di Biden all’economia, quindi, non appare scontato.
Il presidente sembra ritenere che l’epidemia abbia dimostrato che esistono sfere sociali che non possono essere governate solo secondo criteri economici o aziendalistici. La sanità è una di queste sfere. Ma lo stesso Biden ha indicato la seconda: il clima e l’ambiente. Al punto da nominare un politico di primo piano come Kerry zar del clima e averlo inserito nella stanza dei bottoni della Casa Bianca, il consiglio di sicurezza nazionale. Clima e sanità sono temi che potenzialmente possono cambiare il modello di sviluppo americano. Biden ha anche detto che si aspetta un aumento dell’occupazione in questi settori. A sostenere la linea del presidente c’è poi la trasformazione in atto del capitalismo.
Il neoliberismo appare in declino. In Usa si diffonde l’idea che abbia destabilizzato la società creando troppe diseguaglianze, ma rischia di diventare anche economicamente svantaggioso. Vi sono settori, come la farmaceutica, l’elettronica, la sicurezza, in cui l’America inventa prodotti e software all’avanguardia nel mondo che poi vengono fabbricati all’estero. Tenendo alto il deficit commerciale del Paese. Trump aveva compreso il problema quando lanciò l’idea di riportare in patria le fabbriche.
Ma questo processo di re-shoring, come lo definiscono gli economisti, di fatto sembra fallito. La globalizzazione potrebbe rallentare, le catene globali del valore potrebbero ristrutturarsi (in parte allontanandosi dalla Cina e redistribuendo i siti produttivi), l’interdipendenza tra i paesi potrebbe allentarsi, ma questi fattori che hanno reso l’America un Paese del terziario avanzato più che della manifattura resteranno condizionanti. Anche per Biden non sarà affatto agevole invertire la tendenza. Ma proprio perché non sarà rapido né scontato il processo per tornare a essere un paese manifatturiero, il nuovo presidente proverà a realizzare un welfare state e una protezione sanitaria che sostengano i ceti più vulnerabili.
Biden punterà a ridurre la disoccupazione indotta dal Covid. Proverà a intervenire a favore della middle class, che ha pagato un prezzo alto alla trasformazione di questi decenni. Il problema però non è solo sostenere il lavoro, ma anche la qualità e il tipo di lavoro che si crea, il contesto sociale in cui si inserisce. Non dimentichiamo che una parte rilevante della middle class è bianca, anglosassone, protestante, vale a dire parte dell’elettorato nel quale ha pescato Trump. Il lavoro non significa solo salari, ma assegna un ruolo sociale, attribuisce uno status, dà significato all’esistenza.
La frattura socio-economica che attraversa gli Usa suggerisce che un superamento del neoliberismo sia possibile. La premessa del neoliberismo era che di riducesse il perimetro di intervento dello Stato a favore del mercato. Negli anni c’è stata una redistribuzione di potere tra pubblico e privato a favore di quest’ultimo. Ma le sfide che la superpotenza deve affrontare oggi all’esterno (la assertività della Cina) e all’interno spingono per un ritorno dello Stato come protagonista della vita collettiva. Il tema è quale ruolo deve avere il mercato nella costruzione dell’ordine sociale. Se si guarda al divario sociale degli ultimi decenni si scopre che non si tratta solo di un divario quantitativo tra chi ha lavoro e reddito e chi no. Non c’è solo la differenza tra chi ha un buon lavoro, con la sua limitata sicurezza in Usa, e i working poors, che sopravvivono facendo più lavori, pagati male e senza tutele.
A creare la differenza è sempre più la tipologia di reddito: se proviene da lavoro (cioè i salari) o da capitale (cioè i profitti). La crescita di produttività, per esempio, negli anni non si è tradotta in un aumento dei salari. Negli ultimi cinquant’anni la quota di ricchezza nazionale che va ai salari è scesa dal 67% al 60%. Nella quota dei profitti vanno considerati i sottoscrittori dei fondi pensione, ma la parte più rilevante affluisce alle fasce benestanti. Esistono alcuni segnali in controtendenza (aumento occupazione femminile, aumento dei salari più bassi del 6%, calo dei prezzi dei beni più diffusi), ma il limitato incremento di reddito e potere di acquisto è stato eroso dalle spese per la sanità e l’istruzione. Nonostante la riforma di Obama, che pure ha coperto per la prima volta milioni di persone, 30 milioni di americani restano senza assicurazione medica. Le classi medio-basse sono quelle che pagano di più. Infine l’istruzione è molto importante in Usa per la mobilità sociale.
Il divario salariale tra i laureati e coloro che hanno il diploma superiore è raddoppiato negli ultimi decenni, passando dal 40% all’80%. Ma l’elevato costo dell’istruzione e delle rette universitarie ha fatto sì che la quota dei giovani americani laureati sia aumentata di pochi punti: dal 27% al 33%. I tagli imposti a scuole e università si sono tradotti in un aumento delle tasse per frequentarli. Il risultato, che Biden ha sottolineato in campagna elettorale, è quello di un avvicinamento della classe media a quella bassa. Il sogno americano si avvera sempre meno.
Per intervenire sul disagio sociale, l’America non potrà affidarsi solo al mercato. Anche perché l’economia americana è una economia basata sull’accumulazione finanziaria, guidata dall’imperativo della creazione di valore per l’azionista. Ma ai profitti privati corrisponde una socializzazione delle perdite. Il National Institute of Health ha investito 40 miliardi di dollari tra il 2010 e il 2016 finanziando la ricerca per oltre 200 farmaci. La National Science Foundation ha finanziato la ricerca di Google, la marina americana il Gps, il Darpa (Defense advanced research projects agency del Pentagono) lo sviluppo di Internet. Le disuguaglianze sociali, gli squilibri tra pubblico e mercato richiederebbero un riallineamento su livelli più equi. Biden rischia il disincanto degli elettori se non dovesse riuscire nell’impresa.
L’idea che si stia vivendo una trasformazione del capitalismo, dopo la sequenza delle crisi di questo ventennio, comincia a prendere piede. Alcuni studiosi come il prof. Branko Milanovic¹² affermano che avanza un «capitalismo politico» in cui l’intreccio e l’influenza reciproca tra Stato e mercato crescerà. Diventa sempre più vincolante il concetto di responsabilità sociale. La superpotenza e la sua economia sembrano sempre più guidate dall’interesse nazionale e dalla sicurezza nazionale.
Il compito che attende Biden sarà probabilmente di formulare una risposta democratica a questa crisi e attuare un riorientamento della società. Occorreranno mesi per capire come potrebbe realizzarsi, ma molti segnali indicano il ritorno dell’indirizzo pubblico. Del resto, molte voci (anche a destra) concordano sul fatto che i punti deboli della superpotenza sono le crescenti disuguaglianze, la produttività stagnante, una finanziarizzazione che si avvita su se stessa, un deficit commerciale che nonostante i dazi contro la Cina è molto alto. C’è una dipendenza della superpotenza dalla fornitura estera che rischia di diventare una seria debolezza strategica.
La sofisticata ricerca americana genera prodotti che vengono fabbricati altrove. Usa e Cina potrebbero trovarsi a competere proprio come due differenti modelli di capitalismo politico. È su questo piano delicato che Biden non potrà cancellare alcune delle scelte di Trump come la concorrenza con la Cina. Anche se l’America di Biden utilizzerà altri mezzi per altri fini.
Bibliografia
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