Anastasi, gol e rovesciate per gli operai della Fiat Mirafiori

Darwin Pastorin

Pietro Anastasi arrivò alla Juventus, dal Varese, nel 1968, l’anno del tutto e del niente, del furore e dell’utopia, dell’immaginazione al potere. Il centravanti catanese (della Sicilia possedeva il sorriso lucente e caldo) era reduce dalle meraviglie in nazionale, quando l’Italia, grazie anche a un suo gol da incorniciare, superò 2-0 la Jugoslavia, allo stadio Olimpico di Roma, nella finale bis degli Europei. L’altra rete portava la firma, chiara e indelebile, di Gigi Riva, il breriano Rombo di Tuono.

Per me, tredicenne tifoso bianconero, quell’acquisto rappresentò una epifania, un dono, un bene segreto. Pietruzzu, come veniva chiamato, diventò il mio beniamino: avevo il suo poster nella mia camera da letto, raccoglievo tutti gli articoli che lo riguardavano, ritagliavo tutte le foto delle sue prodezze, riempivo il mio diario scolastico con le sue figurine e, giocando da attaccante, con la maglia numero nove come lui, imitavo le sue movenze, il suo modo di calciare e di esultare. In terza media lo raccontai in un tema come «il più grande protagonista del Novecento», la professoressa di italiano mi perdonò perché era scritto bene.

Anastasi sostituì, nella mia fantasia, nella mia emozione, gli eroi salgariani: era lui, ora, il mio Sandokan, il mio Corsaro Nero. Andavo allo stadio Comunale di Torino, in curva Filadelfia, tifando soprattutto per lui, la squadra veniva dopo: era Pietro l’archetipo della mia voglia di avventura e del mio ritorno al mito.

Con il tempo, Pietro e Anna, sua moglie, sono diventati miei amici del cuore. Sono venuti al battesimo di mio figlio Santiago, a casa dei miei genitori, io sono stato ospite da loro a Varese e ho avuto Pietruzzu come opinionista, seguito a apprezzato, in diverse mie trasmissioni. Un giorno, a Noto, in una mattinata di sole lieve, prendendomi sottobraccio, mi disse: «Sai, Darwin, della mia vita continui a sapere più cose tu di me».

Se n’è andato poco più di un anno fa, lasciandomi dentro il cuore un dolore infinito e la dolcezza della conoscenza. Risento il suo abbraccio e lo rivedo sul prato verde: esibirsi nella sua rovesciata proletaria, correre e rincorrere, festeggiare con le braccia al cielo, felice come un bambino.

Scrisse Giovanni Arpino: «Nel formicolio delle mansarde, negli agglomerati umidi delle periferie, Pelé Bianco portava lume con la sua acrobazia e il suo ciuffo. Era un vincente, era la conferma che il sogno della Città Ideale poteva venire inseguito anche in pantaloni corti, anche per soli novanta minuti domenicali».

Pietruzzu fu anche un simbolo, di passione e di riscatto, per gli operai meridionali della Fiat Mirafiori, in quel Sessantotto di rivolte e di contestazioni. Secondo molte tesi, anche da parte di storici e di esperti in sociologia, il suo acquisto, da parte di Giovanni Agnelli, rappresentò, nel pieno delle rivendicazioni sindacali, una mossa non soltanto tecnica, ma anche politica. In effetti, molti lavoratori metalmeccanici conobbero, la domenica, una specie di armistizio con il padrone: in quei 90’ di partita la squadra della Famiglia diventava una specie di bene comune. Poi, dal lunedì tutto tornava come prima: fine della tregua calcistica.

Pietro restò alla Juve dal 1968 al 1976, mettendo a segno 78 gol in 205 partite di campionato e conquistando tre scudetti. Per me resterà per sempre l’eroe del pallone, un fratello maggiore.


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