La pandemia causata dal coronavirus ha messo in luce, in modo quanto mai evidente, l’estrema fragilità del nostro sistema globale. Sono bastati pochi mesi perché l’intero sistema economico planetario andasse in frantumi, perché non aveva mai messo in atto nessuna previsione.
Un sistema che vive alla giornata, senza mai pensare a un domani. In questo senso, avremmo già dovuto capirlo dopo la crisi del 2008, di tutt’altra natura, dovremmo avere l’onestà di ammettere che è stato non solo un grave errore, ma anche un segnale di regressione. Le mie origini sono montanare e nelle vallate piemontesi c’era molta povertà in passato, ma ogni famiglia ogni comunità poteva rimanere isolata anche due mesi in inverno: aveva le riserve. Noi nell’epoca della grande globalizzazione no.
Se sfogliando il repertorio etnografico, prendiamo in esame molte delle popolazioni tradizionali, quelle che spesso chiamiamo primitive, scopriamo che pensavano al futuro molto più di quanto facciamo ora noi.
I cacciatori-raccoglitori non raccoglievano mai tutti i frutti o le bacche di una pianta, ma ne lasciavano un po’ perché la pianta potesse riprodursi; in moltissime regioni dell’Africa possiamo vedere i boschetti sacri, aree di foresta che venivano preservate dal taglio del legname, per non impoverire troppo il patrimonio boschivo; lo stesso concetto di totem, serviva a limitare la caccia di certi animali. Nel deserto del Sahara mi è capitato più volte di osservare come i tuareg prendessero pezzi di legno dai pochi alberi reperibili, senza mai intaccare troppo la pianta, perché sopravvivesse. Gli esempi potrebbero essere molti, ma il concetto è che molte di queste popolazioni pensavano al domani, per rispetto verso la natura e per garantirsi la sopravvivenza, visto che le due cose sono strettamente legate.
Sono passati quarant’anni da quando Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute, poneva all’inizio di un suo libro questo indovinello: immaginiamo uno stagno in cui il primo giorno ci siano due ninfee, il secondo quattro, il terzo otto. Ogni giorno il numero di ninfee raddoppia. Dopo trenta giorni lo stagno è completamente ricoperto di ninfee: dopo quanti giorni sarà ricoperto a metà? Il ventinovesimo giorno era il titolo del libro, in cui Brown ipotizzava che ci sarebbe stato un punto in cui le risorse del pianeta non sarebbero più state in grado di rinnovarsi e sarebbe iniziato il declino. Se non siamo al ventinovesimo giorno, ci siamo molto vicini.
Il problema sta però nella cecità che sembra avere colpito gran parte dell’umanità. Una cecità che impedisce di vedere come quel giorno si stia avvicinando. L’orizzonte che vediamo è solo quello legato allo sviluppo, parola magica che ha pervaso, a partire dal dopoguerra, le retoriche comunicative mainstream e sviluppo ha finito per coincidere con crescita. Non c’è giorno in cui gli organi di informazione non ci mettano in guardia dal pericolo della mancata crescita. Svilupparsi, crescere è diventato un imperativo.
L’idea di sviluppo dominante nella nostra cultura, intende mostrare quello che distingue le società moderne da quelle che le hanno precedute. Lo sviluppo è costituito da un insieme di pratiche a volte apparentemente contraddittorie le quali, per assicurare la riproduzione sociale costringono a trasformare e a distruggere, in modo generalizzato, l’ambiente naturale e i rapporti sociali in vista di una produzione crescente di merci (beni e servizi) destinate, attraverso lo scambio, alla domanda solvibile. Letto in questi termini, lo sviluppo, come lo concepiamo noi, non è altro che l’espansione planetaria del sistema di mercato.
Il problema non sta solo nella semplice adozione indiscriminata di tale modello, ma nel pensarlo come naturale, ineluttabile, un destino a cui è impossibile sfuggire.
Per questo ci deve fare riflettere l’idea dell’antropologo elvetico Gilbert Rist, quando, con un’analisi raffinata e originale, sostiene che il concetto di sviluppo svolge per la società occidentale (e non solo, vedi la Cina e altri Paesi asiatici) la stessa funzione dei miti nelle società cosiddette primitive. Lo sviluppo è il mito fondante della società capitalistica di mercato. Senza di esso tutto il sistema crollerebbe: dobbiamo perciò credere nel vangelo dello sviluppo, nel suo mito.
Sviluppo quindi, come pilastro della moderna religione economicistica: un’ideologia si discute, una fede no e l’atto di credere è performativo e se si deve credere è per far fare. Come ogni credenza, anche lo sviluppo ha i suoi rituali, fatti di incontri tra i grandi della Terra, che si tengono in genere in località di lusso, che continuano a tenere accesa la fiamma della speranza in un futuro migliore al di là di ogni logica conclusione.
Un esempio di come l’idea di sviluppo si avvicini più a una fede che all’espressione di una presunta razionalità, è dato dal fatto che, nonostante i ripetuti fallimenti, la crescita delle disuguaglianze, la sempre più evidente crisi ambientale, si continua imperterriti nella stessa direzione. Ogni fallimento diventa l’occasione di nuove dilazioni: la problematica dello sviluppo è inscritta nell’immaginario occidentale e ne costituisce il mito fondante.
Per questo la sospensione imposta da questa pandemia, lo stallo a cui ci ha costretti tutti, impone una riflessione profonda.
Siamo stretti in una morsa terribile, e qualsiasi via di uscita impone comunque qualche rinuncia. Non è il tanto amato win win degli economisti finanziari, questo è un gioco a somma zero, dove il limite è dato dalle risorse del pianeta. Il Sars Cov 2 sembra averci lanciato un segnale: non ci sono confini, né barriere che tengano, siete tutti ugualmente vulnerabili di fronte a questa piccola espressione della natura.
A volere guardare da un’altra prospettiva, l’ammonimento potrebbe indurci a ripensare al fatto che apparteniamo a una stessa umanità (cosa di cui ci dimentichiamo troppo spesso, condizionati come siamo da etnocentrismi, sovranismi e pensieri di Stato vari) e che abbiamo un destino comune. Un fatto, questo, che l’accecamento generale ci ha troppo spesso impedito di vedere. Siamo passeggeri – spesso litigiosi – di uno stesso treno, che improvvisamente si è arrestato e a questo punto dobbiamo scegliere cosa fare, quale viaggio intraprendere. Le opzioni non sono illimitate.
Una crescita esponenziale dell’utilizzo delle risorse porterebbe inevitabilmente al crash finale. L’inizio del declino verrebbe bruscamente anticipato e il ventinovesimo giorno rischia di diventare il ventiduesimo o il ventitreesimo. Ma non è solo un problema tecnico: è soprattutto politico, cioè culturale.
In un interessante libro-manifesto intitolato Ora. La più grande sfida dell’umanità, Aurélien Barrau suggerisce un cambiamento radicale, financo coercitivo: «Da tempo, e molto volentieri, abbiamo accettato per esempio che la legge ci vieti di fare del male, fisicamente, a qualsivoglia individuo. Senza esitazione, dobbiamo accettare che nello stesso modo ci vieti di contribuire a distruggere globalmente la vita terrestre – umana e non umana».
Umana e non umana, questo è un punto centrale, che significa ripensare totalmente il nostro rapporto con la natura, uscendo dalla nostra torre antropocentrica. Non pensare più a piante e animali solo come a risorse, ma come «entità con un significato intrinseco, con le quali è certo possibile interagire». Barrau pone come esempio della visione antropocentrica anche la creazione di parchi e riserve naturali, che non fanno altro che relegare la natura in uno spazio separato, mentre nel resto del pianeta si va avanti come prima.
Dobbiamo allora riscoprire e reimmettere al centro del nostro parlare quella parola ormai espulsa da ogni lessico politico che è solidarietà, estendendola a tutte le componenti del pianeta.
Nell’antropologia tedesca dell’Ottocento e in parte del Novecento veniva spesso usata una dicotomia tra popoli della natura (Naturvölker) e popoli di cultura (Kulturvölker). Tale classificazione in realtà indicava nel primo caso i selvaggi, i primitivi, intesi come soggetti a leggi naturali, mentre i civilizzati con le loro istituzioni rientravano nel secondo caso. Come già abbiamo accennato, forse dovremmo ripensare quella definizione per re-interpretarla in una chiave più attuale: partendo dalla consapevolezza della interdipendenza tra esseri viventi, stabilire un nuovo patto con la natura, ri-diventando in qualche modo popoli di natura. Il ché non costituisce un ritorno al passato, ma una nuova prospettiva, che enfatizzi le somiglianze con gli altri esseri, viventi e no (non dimentichiamo che il virus, il quale ha messo in ginocchio buona parte dell’umanità, è in fondo un essere molto primitivo).
Le società primitive erano costantemente preoccupate per il loro futuro e si muovevano alla ricerca di un equilibrio relativo con l’ambiente in cui vivevano. A questo servivano, per esempio, i totem, i boschi, le foreste e le montagne sacre: a proteggere parti di ambiente dalla mano dell’uomo. Allora, provocatoriamente, potremmo fare nostre nuove forme di totemismo, che servano a limitare gli eccessi.
Ci vuole uno scarto profondo, un mutamento dei valori e il trovare o ritrovare una certa sacralità (ovvero intangibilità) dell’altro, umano o meno che sia. Un nuovo immaginario, un rovesciamento simbolico dove la natura non sia più sotto i nostri piedi, ma in cui noi siamo nel mezzo della natura, insieme ad essa e in compagnia di altri. Forse anche in questo caso, qualche piccola modesta proposta ci arriva dall’atlante etnografico, dal modo in cui altre società umane vedono e pensano la natura.
In molte regioni del Sahel dopo avere tagliato un ramo, il contadino appoggia la mano al tronco e con una breve preghiera chiede perdono all’albero, come a dire: so di avere fatto qualcosa di male, ma ho dovuto farlo. Stesso comportamento tra gli Inuit, i quali dopo avere ucciso una foca, chiedono scusa all’anima dell’animale ucciso. L’elenco sarebbe lungo, ma ciò che ci interessa qui è capire che tali atteggiamenti sono legati a una visione del mondo in cui la natura, l’ambiente e l’uomo sono un tutt’uno. È la lezione dell’animismo, in cui tutto ha un’anima.
E forse vale la pena di ricordare le parole di Pepe Mujica, ex presidente dell’Uruguay, in occasione del Forum Rio de Janeiro + 20 nel 2012: «Che cosa passa nella nostra testa? (…) Stiamo governando la globalizzazione o la globalizzazione ci governa? É possibile parlare di solidarietà e dello stare tutti insieme in una economia basata sulla competizione spietata? Fino a dove arriva la nostra fraternità? L’uomo non governa oggi le forze che ha sprigionato, ma queste forze governano l’uomo […] Perché non veniamo alla luce per svilupparci solamente, così, in generale. Veniamo alla luce per essere felici […] Perché è questo il tesoro più importante che abbiamo: la felicità! Quando lottiamo per l’ambiente, dobbiamo ricordare che il primo elemento dell’ambiente si chiama felicità umana!».
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La foto che accompagna l’articolo di Marco Aime è di Simon Migaj