Annie Ernaux, la scrittura come atto politico e rivoluzionario

Teresa Lussone

«Penso che la scrittura sia in ogni caso una questione politica. Non credo affatto che sia un’attività anodina – non parlo del momento in cui scrivo ma del risultato – giacché non si può pensare di scrivere senza provocare un’eco: il libro genera un’azione, ha un’influenza sulla coscienza e l’incoscienza della gente. Ma detto questo non ho mai riflettuto al tipo di azione che i miei libri producevano», ha dichiarato Annie Ernaux nel 2011, intervistata da Raphaëlle Rérolle.

Viene in mente Sartre, famoso per aver rinunciato al premio Nobel nel 1964: dal suo punto di vista le ragioni per cui era stato designato come vincitore erano sbagliate. Secondo il filosofo, l’Accademia di Svezia aveva letto Le Parole, la sua autobiografia pubblicata proprio quell’anno, come un «libricino ben scritto», senza riuscire a comprendere il lato simbolico e politico di questo testo dall’altissimo grado di figuralità (ogni episodio della vita del giovane Sartre allude al suo futuro engagement).

Per il filosofo era inaccettabile che la bellezza dell’opera, e persino il suo virtuosismo, fossero apprezzati senza cogliere la relazione con il contenuto in quanto significava rinunciare a un principio essenziale della letteratura: quello di essere scritta «in situazione», ovvero di essere ancorata a una determinata epoca e di essere creata con lo scopo di prendere posizione rispetto ai problemi di quel tempo. Si tratta di un compito da cui la letteratura non può esimersi, tanto che per Sartre gli scrittori si dividono in due grandi categorie, quella di chi ha scelto l’impegno, come Hugo e Zola, e quella di chi ha scelto l’arte per l’arte, come Baudelaire e Flaubert (anti-modelli per eccellenza).

Senza ombra di dubbio, Annie Ernaux rientra nella prima categoria, tanto che la recente assegnazione del Premio Nobel 2022 ha suscitato non poche polemiche: si è parlato di un’opera che guarda più al contenuto che alla forma, ci si è chiesti di cosa debba tenere conto un premio letterario.

Prima scrittrice francese a ricevere il Nobel, Ernaux è nata nel 1940 in Normandia. I suoi genitori gestiscono un bar-drogheria. Dopo gli studi superiori diventa insegnante di lettere. Nel 1984 Il Posto, in cui racconta la storia del padre, contadino, divenuto prima operaio, quindi gestore di un bar-drogheria in una provincia della Normandia, le vale il premio Renaudot. È poi la volta di Una donna, dedicato a sua madre, in cui ripercorre le sue vicende, dalla miseria contadina all’esperienza operaia, quindi al riscatto come commerciante, fino alla malattia. Torna spesso, con prospettive differenti, il contesto familiare modesto e provinciale da cui Ernaux si è allontanata dopo essere diventata insegnante e poi scrittrice, così come tornano i sentimenti di rivalsa verso questo ambiente, ad esempio nella Vergogna. Nell’Altra figlia, in una assolata domenica d’estate, una bambina ascolta per caso una conversazione della madre e scopre che un’altra figlia l’ha preceduta, morta per difterite due anni prima della sua nascita. Gli Anni rappresentano invece una cronaca collettiva dal dopoguerra a oggi, passando per la Liberazione, l’Algeria, de Gaulle, il ’68, l’emancipazione femminile, Mitterrand, l’avvento di internet, l’undici settembre. L’Evento resta una delle opere più note; viene narrata un’esperienza vissuta durante il periodo dell’università: l’aborto clandestino, la sofferenza, l’umiliazione.

Si svela così la cifra stilistica che caratterizza i suoi testi: il percorso individuale si svolge all’interno di un itinerario collettivo, individualità e società sono osservate con lo stesso «coraggio» e con la stessa «acutezza clinica», per citare le motivazioni del Nobel.

Vengono così a infrangersi i confini tra letteratura, storia, sociologia. Da qui l’espressione «auto-socio-biografia»: Annie Ernaux ha inventato un genere per cui ognuno dei suoi racconti costituisce un frammento: opera dopo opera si ricostruisce una vita, una storia che non è solo quella della scrittrice, ma anche quella di un’epoca e di una società. «Scrivo su cose che mi toccano da molto tempo, temi, domande, sofferenze, quello che la psicanalisi chiamerebbe “non superabile”, come la morte di un padre, di una madre, un aborto, un sentimento di vergogna… Si tratta di cose sepolte che cerco di riportare alla luce, ma in un modo che non sia unicamente personale», ha affermato la scrittrice nell’intervista già citata.

Il tratto è limpido (volutamente rivolto a un pubblico ampio), pacato, privo di pathos, di lirismo o sentimentalismi. «Non cerco mai di fare piangere», ha dichiarato.  Eppure, la scrittura è violenta: porta alla luce le vergogne, le verità scomode, quello che non si può dire.

La narrazione si alterna talvolta a una riflessione sulla scrittura stessa: la narratrice spiega spesso perché ha deciso di prendere la parola e talvolta, come nell’Evento, riferisce come ha ricostruito i fatti. Seguendo metodi che vengono dalla narrazione documentaria, presenta quello che ha letto nei diari del tempo e cita le prove con esattezza scientifica: la sua testimonianza deve essere inconfutabile. Il racconto metaletterario si trova così sullo stesso piano dei sentimenti più reconditi, entrambi vengono riportati con la stessa esattezza. È il segno di come vita e letteratura siano indissolubilmente legate.

Nell’Altra figlia, dopo aver esplorato a lungo le emozioni provate dopo aver scoperto di aver avuto una sorella, la narratrice dice: «Orgoglio e senso di colpa nell’essere stata scelta per vivere, in un disegno indecifrabile. Forse più orgoglio della sopravvivenza che senso di colpa. Ma scelta per fare che cosa. A vent’anni, dopo essere discesa nell’inferno della bulimia e del sangue mensile prosciugato, è arrivata una risposta: per scrivere» (trad. it. di Lorenzo Fabbri, L’Orma editore). La scrittura è motivo e ragione di vita.

Intervistata nel 2014 da Pierre-Louis Fort, Annie Ernaux scrive: «Non sono un tipo tiepido. Questa collera non è una pulsione cieca, è il motore che permette di vedere. Parto dalla necessità di chiarire un sentimento: perché questa collera? Cos’è, in quello che vedo, in quello che sento, che mi fa pensare: “non è giusto, non va bene?”, e che mi renderebbe pronta a scendere in piazza? Ma piuttosto che scendere in piazza (da sola!), scrivo. La collera come motore ha sempre svolto un ruolo di primo piano nella mia scrittura». Riprendendo le parole di Sartre si potrebbe dire che l’impegno di Eranux è «silenzioso». I testi svelano o denunciano, ma il fine dell’impegno non è necessariamente l’azione: la sua scrittura non è necessariamente orientata ad agire direttamente sul presente come per i due filosofi, bensì ad interrogare un’epoca e a costruire una memoria per la successiva.

Tuttavia, la letteratura non è mai strumentalizzata o ridotta a uno strumento in difesa di una causa: la dimensione etica e politica offre la materia del racconto, ma non annulla la ricerca formale e la dimensione estetica, tutt’al più la plasma. La frase in esergo a Un jeune homme, pubblicato in Francia nel 2022 e non ancora tradotto in italiano, sembra spiegare ancora meglio il senso dell’opera di Ernaux nel suo complesso: «Se non le scrivo, le cose non sono andate fino in fondo, sono state semplicemente vissute». Sono lì le ragioni del premio, in questa scrittura che completa la vita, fin quasi a diventarne una propaggine.

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