L’arte pubblica è argomento di grande attualità nell’odierno dibattito culturale – che la pandemia abbia scoperchiato fragilità e insostenibilità delle città è cosa nota – ma non è scontato, anzi semmai è ancora più delicato che cinquant’anni fa. È necessario, innanzi tutto, capire cosa s’intende con la dicitura arte pubblica e di conseguenza la percezione e il ruolo che essa ha nello spazio urbano o in ambiente, ma soprattutto se questa è in grado o meno di ingenerare processi virtuosi di miglioramento a livello territoriale e sociale.
Pertanto, le parole hanno un significato ma anche un peso. Su arte non mi soffermo, dandola per scontata, ma su pubblico, se sfogliamo il vocabolario, troviamo la definizione: «[…] che riguarda la collettività, considerata nel suo complesso […] che provvede alle necessità della cittadinanza […]».
Va da sé che un’azione di arte pubblica, per essere tale, dovrebbe inserirsi dentro politiche culturali e progetti capaci di innescare processi di crescita personale e della cittadinanza, ossia sviluppare capitale culturale. In altre parole, l’arte pubblica dovrebbe essere qualcosa che rende lo spettatore partecipante ma perché ciò avvenga, nessuna parte sociale, istituzioni e singoli, può essere trascurata. Quanto chiarito, dovrebbe lasciare intuire sin da subito la complessità della progettazione di tale arte che, nel suo percorso storico, dall’autoreferenzialità del monumento ottocentesco a oggi, si esprime nel moderno concetto di rigenerazione e più in generale in un impegno a rappresentare la collettività. Nel mezzo si collocano le esperienze del secondo ’900 che, per ovvie ragioni di spazio, citeremo limitandoci ai soli casi dell’arte italiana.
Capostipite di una sequela di successive manifestazioni è Sculture nella città, la mostra organizzata nel 1962 da Giovanni Carandente (in quell’anno direttore artistico delle arti visive per la 5° Edizione del Festival dei due Mondi, organizzato annualmente dal 1958 da Gian Carlo Menotti) tra le strade del borgo di Spoleto, la prima nel suo genere per la messa a confronto fra sculture contemporanee e architettura storica. Sculture nella città, tuttavia, è importante non solo per questa prima sperimentazione urbana ma soprattutto per l’implicito obiettivo di Carandente di avvicinare all’arte le persone non interessate a essa. Espressive e rilevanti sono le fotografie di Ugo Mulas che ritraggono, oltre agli artisti al lavoro, gli abitanti e le loro reazioni e relazioni con le sculture. Donarono alla città la propria opera sei artisti: Arnaldo Pomodoro, Pietro Consagra, Nino Franchina, Lynn Chadwick, Beverly Pepper e Alexander Calder, lavori che oggi restano a perenne memoria di quell’evento.
Avvicinare all’arte le persone mai entrate in un museo, renderle consapevoli del valore culturale di un oggetto, un segno, un’espressione artistica, del paesaggio naturale e urbano, è quanto Carandente aveva in mente circa il nuovo ruolo della cultura all’interno delle comunità, soprattutto in un momento storico e politico coincidente con forti trasformazioni sociali. Tuttavia, i tempi erano prematuri e la pioneristica operazione del critico napoletano, per quanto riguarda il sociale, storicamente si colloca più nell’orbita del teorico che del pratico, considerando in parte il fruitore ancora uno spettatore.
Da quel momento in poi, l’idea dello spazio urbano come luogo da agire, non solo nelle grandi città, ma anche nei centri minori, è stato un fenomeno, per quanto disomogeneo, sempre costantemente in crescita.
Volendo fare ancora qualche esempio storico ma tralasciando le azioni dei numerosi collettivi, o la nascita dei primi spazi autogestiti, sorti sull’onda degli anni della contestazione e operativi fino all’alba degli Ottanta, si potrebbero almeno ricordare gli interventi ironico-politici di Piero Gilardi che però, sia chiaro al lettore, si collocano nell’effimero, nel temporaneo. Erano, infatti, azioni di teatro di strada, carri, animazioni nei cortei, definiti dall’artista teatro dei mascheroni, ovvero irruzioni improvvise ed estemporanee durante comizi e assemblee di piazza, vere e proprie performance che trasformavano per la prima volta la produzione artistica in pratica sociale concreta.
Ancora, vale la pena citare il lavoro di Ugo La Pietra e i suoi progetti di recupero, opere e ricerche nell’ambiente urbano che, condotte sin dagli anni Sessanta, hanno sempre guardato alla città, alla sua architettura e ai suoi abitanti. Si pensi alle Attrezzature Urbane della fine degli anni Settanta o ai successivi Soggiorni Urbani dei Novanta, fino ai più recenti progetti dedicati al verde che mettono in luce limiti e contraddizioni di una certa pratica dell’architettura, come da lui stesso definita, spesso ostinata a costruire case, strade, quartieri, città senza tener conto del verde per l’appunto. Progetti ancora oggi di un’attualità disarmante.
Dicevamo lo spazio urbano è pensato, sin dalle prime esperienze, come luogo da agire. In tale direzione si colloca la manifestazione Campo Urbano, interventi estetici nella dimensione collettiva urbana, svoltasi nel centro storico di Como nel 1969 che vede coinvolti, tra i molti, Bruno Munari, Ugo La Pietra, Enrico Baj, Gianni Colombo, Gianni Pettena, Dadamaino e Ugo Mulas, con l’obiettivo di portare la riflessione dell’arte, dell’architettura e del design nella quotidianità attraverso interventi partecipativi capaci di coinvolgere la collettività. Leggendaria è la performance di Bruno Munari che visualizza l’aria di Piazza Duomo con le persone impegnate a tagliare pezzi di carta e a lanciarli dalla torre, ma anche quella di Gianni Pettena che stende file di bucato trasfigurando l’immagine istituzionale della piazza.
Ancora, nel settembre del 1973 si tiene a Volterra un evento, anch’esso precursore della ricerca d’orientamento ambientale, curato da Enrico Crispolti insieme allo scultore volterrano Mino Trafeli. Sondare la progettualità plastico-visiva nel dialogo con lo spazio urbano al fine di sollecitare la costruzione di una comunità attiva, era l’obiettivo principale di Volterra ’73. Al centro della riflessione ruotava l’idea di consapevolezza del luogo ma anche di estetica, secondo una pratica che intendeva andare ben oltre il mero problema scultoreo. A testimonianza di tale orientamento è la Biennale di Venezia del 1976 dove, nella sezione curata da Raffaele De Grada e Enrico Crispolti Ambiente come sociale, è presentata per la prima volta una mappatura degli interventi di arte pubblica realizzati sul territorio nazionale.
Con gli anni Ottanta, purtroppo, si è scritta una storia diversa, se non addirittura deludente rispetto ai temi indagati nelle esperienze sopra citate. Crolla, in sostanza, il senso di partecipazione che tanto aveva animato il decennio precedente, così l’interesse degli artisti per la città e le azioni nel pubblico che, quando pure persiste, assume un carattere squisitamente soggettivo. Il tema dello spazio pubblico, individuale o collettivo, i valori legati al relazionale tornano in auge, invece, nella prima metà degli anni Novanta, scevri da quelle sfumature politicizzate che avevano caratterizzato gli anni Settanta, ponendo attenzione più alle zone periferiche che ai centri storici.
Anche per questo decennio e in quelli a seguire gli esempi sarebbero innumerevoli ma venendo all’oggi, proviamo a porre l’attenzione almeno su alcuni casi, a mio parere, indicativi dell’orientamento contemporaneo. Posto che a livello istituzionale per arte pubblica genericamente s’intende il locare un manufatto nello spazio comune in modo perenne e accessibile a tutti, posto che con ciò si possano contemplare anche azioni di arredo urbano (in ogni caso parliamo di cose lontane dalle storiche Land o Earth Art), è senza dubbio l’intensificarsi dell’aspetto relazionale quello che meglio chiarisce la contemporaneità, sia si tratti di operazioni durature o effimere, come in parte dimostrato sin dalla sua genesi o negli esempi a seguire.
Probabilmente per quel che riguarda l’arte ambientale o l’opera installativa, un caso che sancisce anche una rinnovata attenzione verso tale pratica nel nostro Paese, può essere The Floating Piers dell’artista Christo realizzato sul Lago d’Iseo nel 2016. Attenzione però, qui va fatto un primo, seppure piccolo, distinguo. Sebbene l’intervento abbia coinvolto circa un milione e mezzo di visitatori, senza dubbio generando una relazione di empatia fra le persone e il luogo, non si può affermare essere nata dal coinvolgimento diretto della collettività. In questo caso, inoltre, parliamo di un’azione temporanea.
Altro caso esemplare, è l’installazione permanente, realizzata nello stesso anno, da Edoardo Tresoldi nella basilica paleocristiana di Santa Maria di Siponto a Manfredonia (Foggia), dove la parte absidale è stata ricostruita con sette tonnellate di rete metallica elettrosaldata, restituendo ai visitatori la percezione dello spazio di un tempo, come fosse una sorta di ologramma. Anche in questo caso vale il commento dato per The Floating Piers.
Mi pare opportuno, citare anche Arch and Art, evento anch’esso del 2016, promosso da Assolombarda e realizzato con la rivista Domus nei Giardini della Triennale di Milano in occasione della riapertura della XXI Mostra Internazionale. Curato da Nicola Di Battista, il progetto ha visto la realizzazione di cinque padiglioni architettonici progettati da architetti di fama mondiale in collaborazione con altrettanti artisti italiani contemporanei: David Chipperfield con Michelangelo Pistoletto, Michele De Lucchi con Enzo Cucchi, Hans Kollhoff con Mimmo Paladino, Eduardo Souto de Moura con Jannis Kounellis, Francesco Venezia con Ettore Spalletti.
Arch and Art ha l’indiscusso merito di avere mostrato l’originaria connessione fra le discipline, in una prospettiva dell’abitare meno eclettica e più attenta ai bisogni dove anche e soprattutto il concetto di bellezza rappresenta una necessaria riconquista dell’uomo.
Come si sarà probabilmente intuito, il nodo arte e architettura dal 2016 a oggi, è probabilmente quello più forte, importante, autentico e convincente e non è un caso che l’attuale Biennale Architettura 2021, nella fattispecie il Padiglione Italia curato da Alessandro Melis e titolato Comunità Resilienti, abbia cercato nel dialogo con l’arte il giusto idioma per narrare dei problemi più importanti della terra.
A questo punto mi pare doverosa ancora una precisazione sul tema della rigenerazione urbana attraverso l’arte e la cultura, necessaria anche a ricollegarci con le premesse di questo contributo.
Rapidamente, la sfida della città contemporanea è cercare di mantenere il suo ruolo di centralità attingendo a inediti e innovativi elementi di rinnovamento, guardando tanto al suo interno quanto al rapporto con le periferie. In una fase così critica della città, come quella che stiamo attraversando, una possibile soluzione per la crescente domanda di qualità urbana risiede senz’altro nella creatività, ed è dunque nella rigenerazione che possono ingenerarsi quei processi virtuosi di miglioramento a livello territoriale e sociale cui si accennava all’inizio. Tuttavia, la cultura di una comunità, non può essere rappresentata soltanto dall’arte, di cui è un aspetto ma non il tutto, perciò è necessario si tenga responsabilmente conto anche dei tratti antropologici e sociali di una cittadinanza.
A questo proposito, citare il programma attivato dalla Fondazione Olivetti, Nuovi Committenti (Mirafiori Nord – Torino) fra il 2001 e 2009 e nato sul modello del francese Nouveaux Commmanditaires, è fondamentale perché esso rappresenta la radice sulla quale si sono, in seguito, strutturate molte delle odierne pratiche di rigenerazione. Il programma prevedeva la produzione di opere d’arte, con la finalità di «attivare e recepire una domanda d’arte e di qualità della vita rendendo possibile una partecipazione diretta dei cittadini/committenti alla concezione dell’intervento artistico» con l’intento di restituire valore d’uso all’arte contemporanea. La procedura di Nuovi Committenti prevedeva l’interazione fra committente (cittadino), mediatore culturale e artista, introducendo per la prima volta la figura del mediatore, un esperto d’arte che avrebbe anche potuto corrisponde al curatore ma spogliato di quella centralità e individualità, il cui fare troppo spesso ha oscurato l’opera e l’artista. Nuovi Committenti ha dunque il merito di avere innescato un processo, favorendo il confronto tra artisti e cittadini, questi ultimi autori del valore d’uso dell’opera d’arte e questa rivelatrice della preferenza di comunità. A Mirafiori Nord vivono nella quotidianità opere dal valore estetico molto alto, sebbene concepite dal basso, ovvero quella di Massimo Bartolini, Laboratorio di Storia e storie che ha trasformato una cappella del Settecento in uno spazio didattico per le scuole, di Lucy Orta, Totipotent Architecture, una specie di atollo dove incontrarsi, ideato a partire dal desiderio di sette studenti di due Licei del quartiere e infine, di Claudia Losi, Aiuola Transatlantico, un’area verde con sedute, tavoli ed elementi decorativi immaginata come una grande nave, secondo la volontà di un gruppo di abitanti di avere un luogo d’incontro collettivo.
A conclusione, sembrerebbe ovvio citare almeno qualche esempio attuale, ma sono tantissimi, forse troppi. Dalle numerose manifestazioni della più conosciuta Street Art, alle varie residenze d’artista, all’arte nelle piazze e nei borghi, oggi parlare di arte pubblica non è affatto facile e il rischio di confondersi, di non capire è, per paradosso, molto più alto che un tempo.
Se la storia qualcosa insegna e se gli esempi citati hanno innescato qualcosa, quel qualcosa dovrebbe essere un’attenzione al guardare per non farsi ingannare. Non basta inserire un manufatto nello spazio, per quanto legittimo, non è sufficiente dipingere un muro per parlare di arte pubblica, perché questa deve implicare la responsabilità di tutti gli attori in gioco e non di una sola parte.
Diversamente stiamo parlando di un abbellimento che con molta probabilità sarà molto meno condiviso sotto il profilo estetico e dei contenuti. L’arte pubblica per essere tale deve essere vicina alla dimensione locale dello sviluppo culturale e gestita in cooperazione tra committenti pubblici e privati ben radicati sul territorio. Diversamente, il senso di comunità, del luogo, le sue esigenze, il valore educativo, difficilmente potranno promuovere un concreto cambiamento sociale. Serve responsabilità.