Mancano ormai poche ore all’assegnazione dei Premi Oscar e poi tireremo le somme, avendo scoperto se questa edizione avrà un supervincitore, come le 13 nomination (quasi un record) di Emilia Perez farebbero presagire, oppure se le polemiche suscitate dalle improvvide dichiarazioni della protagonista avranno ridimensionato il suo risultato.
E avremo scoperto se la statuetta per la miglior interpretazione femminile per il ruolo di protagonista avrà ricompensato Fernanda Torres della Coppi Volpi che Venezia le ha negato, premiando Nicole Kidman e il coraggio di farsi coinvolgere in quella «boiata pazzesca» di Babygirl, che l’Academy ha tranquillamente snobbato.
Oppure se anche questa volta la grande attrice brasiliana, favorita della vigilia, dovrà cedere il posto a una star di casa, peraltro assai brava, come Demi Moore.
E potremo magari consolarci della mancanza di presenze italiane e dell’esclusione di un bel film come Vermiglio, con un riconoscimento all’apparizione di pochi minuti in Conclave di Isabella Rossellini che in qualche modo continuiamo a considerare un pezzo del nostro cinema, non senza motivo.
Di questo e della cerimonia, del conduttore, delle mises e di Hollywood rispetto al trumpismo si parlerà da lunedì. Per ora io vorrei restare il più possibile attento ai film, al linguaggio cinematografico, alle tendenze culturali che emergono, alla ricerca stilistica.
Consapevole del rischio di semplificare un po’ troppo, visto che si tratta di una competizione direi che questa edizione propone una lotta tra due linee, due forme di costruzione del racconto e delle immagini che si contrappongono in tutte le aree della realizzazione del film.
A rappresentare simbolicamente le due linee ci sono due coppie di film con il sostegno di qualche altra opera. Da un alto la coppia costituita da Emilia Perez e Anora, dall’altra quella composta da I am Still Here e A complete unknown, con la collaborazione di The Brutalist.
Mi spiego, da un lato c’è il cinema della assoluta contemporaneità, della postmodernità a livello tematico e nelle scelte espressive, un cinema eccessivo, provocatorio, tarantiniano, incurante della verosimiglianza, che passa senza soluzione di continuità dal musical al gangster movie, dal dramma al comico. L’altra coppia, o trio se coinvolgiamo anche The Brutalist, ha uno sguardo rivolto al passato, non solo nella scelta di vicende che risalgono agli anni Sessanta/Settanta, ma nella costruzione classica del racconto, nel naturalismo delle ricostruzioni d’ambiente, nello scavo psicologico dei personaggi, un cinema di denuncia e di riflessione politica, anche quando parla di musica, proprio come usava in quegli anni.
La contrapposizione tra le due linee emerge nella regia ovviamente, ma anche nelle altre categorie: la sceneggiatura, i costumi, il lavoro degli attori.
Penso a quanto Timothée Chalamet ce la metta tutta per dylanizzarsi negli atteggiamenti, nel portamento, nelle movenze. Nessuna scelta da parte mia in questa battaglia tra due idee di cinema e nessun pronostico, come si dice: vinca il migliore.
Con un appunto: Better man, il biopic su Robbie Williams meritava un po’ di più di una semplice nomination per gli effetti speciali; l’idea della scimmia nel ruolo del protagonista è una soluzione a livello di sceneggiatura che spicca per imprevedibilità in un genere di solito avaro di soluzioni fantasiose.