Di Alessandro Leogrande si continua a parlare. Di ciò che ha scritto e del suo sguardo lungo sul mondo. Della sua attenzione al margine e al frammento per raccontare e comprendere meglio il mondo.
Più raramente si scrive della sua scrittura.
Una scrittura contemporanea frutto di una ricerca continua proprio sullo scrivere che parte, il più delle volte, dalla cronaca o dall’inchiesta per assumere lungo il corso della narrazione forme diverse che, come scrive Goffredo Fofi, fanno di Leogrande «il migliore nel saper coniugare inchiesta e narrazione sulla scia di quanto di meglio la cultura mondiale ci ha proposto negli ultimi decenni, partendo magari da modelli lontani».
Una scrittura capace di andare in profondità, non schivare insidie e dolori e di tenere, sempre, su un registro alto, forma e contenuto. Una scrittura che insegna molto.
È il caso, per esempio, dell’ultimo capitolo del libro La frontiera, la storia di Shorsh, un rifugiato curdo che Leogrande aveva conosciuto alla fine degli anni novanta. Il capitolo s’intitola La violenza del mondo e, seguendo il filo della sua narrazione, si scopre che racchiude e riassume molto della scrittura di Alessandro.
Siamo all’epilogo della narrazione, uno dei momenti più difficili per uno scrittore: saper chiudere la storia che si sta scrivendo. In questo caso Leogrande supera sé stesso perché riesce a confezionare un finale perfetto per il suo libro che allo stesso tempo si può leggere come un racconto breve e autonomo. Capita raramente che la chiusura di una narrazione abbia questa duplicità, essere la fine di una storia e, contemporaneamente una storia che può vivere di vita propria. Succede solo ai grandi autori. È il caso di Jonathan Franzen, per esempio, che nel suo libro Libertà utilizza un artificio analogo costruendo un finale che ti fa venire voglia di ricominciare a leggere il libro dall’inizio.
L’espediente utilizzato da Leogrande per fornire al lettore la sua, magistrale, definizione di frontiera, toglie il fiato per la bellezza della descrizione e la profondità del messaggio. E lo fa proprio nelle ultime pagine della narrazione.
In un pomeriggio assolato entro nella chiesa di San Luigi dei francesi. È insolitamente vuota, una manciata di turisti si aggira nella penombra. Mi dirigo automaticamente verso le tele del Caravaggio esposte sulle pareti della cappella Contarelli, la prima cappella alla sinistra dell’altare, e mi accorgo che sono anni ormai che non ci metto piede.
Il capitolo precedente si era aperto con la morte di circa novecento persone a poche miglia dalla costa libica e si era chiuso parlando della militarizzazione dell’Eritrea. E dunque mentre ti aspetti che nel capitolo finale ci siano cifre e ragionamenti sui flussi migratori, all’improvviso irrompe Caravaggio e la potenza della sua arte, della sua pittura.
Così mi ritrovo incantato a guardare il Martirio, che come sempre cattura i miei pensieri ancora più della Vocazione. In quella scena di cruda, assoluta, improvvisa violenza si affollano le nostre debolezze di fronte al mistero del male. Tra le pieghe dell’opera si cela l’enigma del non agire.
Fai appena in tempo a rivedere nella tua mente il quadro evocato che, subito, quell’ultima frase ti scuote e t’interroga. Ce l’ha con me? Ti chiedi.
C’è un vecchio steso a terra, la barba grigia, i capelli stempiati, sembra essere scivolato pochi istanti prima. È Matteo. Ha una mano alzata verso l’alto, cerca di parare il colpo che sta per arrivare. Ma il polso, lo stesso polso che sostiene la mano aperta, è afferrato dalle dita del sicario.
È lui il fulcro del quadro. Il centro intorno al quale tutto ruota è l’ottuso carnefice, non la vittima. Quest’ultima è vestita. Lui invece è nudo, un lembo di stoffa copre i genitali. Fissa negli occhi Matteo: con una mano blocca il suo polso, con l’altra impugna la spada.
Non riesci a darti una risposta perché comincia a descrivere il quadro con una quantità di particolari che quando, finalmente, Google ti restituisce l’immagine del dipinto, è troppo tardi, sai già tutto. La descrizione di Alessandro Leogrande è perfetta. Il quadro è già lì davanti ai tuoi occhi in tutta la sua drammatica bellezza anche se non hai visto nessuna immagine e hai letto, soltanto, parole.
Caravaggio non ritrae l’uccisione, ma l’attimo prima della mattanza. Decide di fissare sulla tela l’istante prima che la violenza si compia. Sospende il tempo esattamente su quel momento. Ma quella stessa violenza, la cui intenzione si sprigiona come un tuono dal corpo del carnefice, è già esplosa per tutto il quadro. Si è già irradiata per cerchi concentrici verso i suoi quattro angoli. Si sentono le grida, la tensione ferina, l’odore acre della paura. La scena è affollata di gente che si ritrae dalla mano del boia. Chi scappa, chi urla, chi inciampa nella fuga, chi alza a sua volta le mani. Sono tutti puntini di un cerchio che si sta dilatando. Nessuno compie il movimento contrario, né tanto meno prova a fermare la spada.
È una scrittura onomatopeica, le parole sono pennellate di colore e insieme pellicola tanto che sembra di assistere alla proiezione di un film. Oltre al movimento dei corpi in fuga ciò che più si percepisce è un odore acre, l’odore della paura.
Nell’intreccio di sguardi che tiene insieme il quadro, ci sono innanzitutto gli occhi della vittima e del carnefice, incrociati tra loro e immensamente diversi. E, in secondo luogo, quelli di ripulsa, panico, indifferenza inebetita di tutti gli astanti, che convergono verso il centro, tanto quanto le onde della violenza esplodono verso l’esterno. Ma poi ci sono gli occhi di un uomo con la barba.
È alle spalle del sicario. Si trova alla sua destra, qualche metro più indietro. Guarda Matteo a terra, e anche lui sa perfettamente cosa sta per accadere.
Quell’uomo, come dicono tutti i testi critici sul dipinto, è Caravaggio […] A differenza degli altri spettatori Caravaggio non fugge, guarda la vittima perché non può fare altro che stare dalla sua parte e vedere come va a finire ciò che si sta per compiere.
Poi, all’improvviso, tutto si acquieta e l’attenzione si sposta. Non siamo più in ansia per la vita di Matteo, la vittima, ma siamo già oltre. Siamo entrati in una dimensione politica e ci siamo schierati: stiamo dalla parte di chi, in quel momento, è più debole.
Dipingendo il proprio sguardo, Caravaggio definisce l’unico modo di poter guardare all’orrore del mondo. Stabilisce geometricamente la giusta distanza a cui collocarsi per fissare la bestia. Dentro la tela, manifestatamente accanto alle cose, non fuori con il pennello in mano. Eppure sa anche che tale sguardo è inefficace, non cambierà il corso delle cose. Non impedirà l’omicidio di quell’uomo anziano caduto per terra, mentre prova a parare i colpi della lama a mani nude.
La transizione è pienamente compiuta. Abbiamo lasciato la concitata sequenza di accadimenti e stiamo per affrontare il cuore del problema: superare il destino della singola persona, delle singole persone, e ragionare in termini collettivi.
Ora mi chiedo se lo sguardo di Caravaggio non sia anche il nostro sguardo nei confronti dei naufraghi, dei viaggi dei migranti e soprattutto della violenza politica o economica che li genera […] Non appena osserviamo il mondo con gli stessi occhi di Caravaggio, esso si rivela come un universo di violenza ferina. Tuttavia, non è la violenza a sgomentarci. Ma il fatto che, anche quando comprendiamo pienamente le sue leggi, non riusciamo ad arrestarle.
Caravaggio e la sua tela sono ormai lontani perché adesso le persone che hanno paura, che scappano in ogni direzione non sono più figuri frutto della fantasia di un pittore, ma persone in carne ed ossa. Adesso torna Shorsh e il filmato che ha fatto vedere ad Alessandro sul massacro di Halabja, cittadina curda attaccata dall’Iraq di Saddam Hussein con gas al cianuro e che causò circa 5000 morti.
Attraversare mezzo mondo per ritrovarsi in Europa non è solo un fatto geografico, non riguarda soltanto le dogane, le polizie di frontiera, i passeurs, gli scafisti, i trafficanti, i centri di detenzione, le navi militari, i soccorsi, gli aiuti, i tir, le corse e le rincorse, gli stop e i respingimenti. Non riguarda solo questo, benché tutto questo possa coincidere, per molti, con l’evento saliente della propria esistenza. Ha a che fare innanzitutto con se stessi. Saltare i muri è innanzitutto un’esperienza individuale.
Adesso il confronto e il dialogo non sono con l’arte e con ciò che rappresenta, ma con la realtà del mondo di oggi, spesso, disuguale e ingiusto.
Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte […] Ascoltare dalla voce di chi ha oltrepassato i confini come essi sono fatti. Come sono fatte le città e i fiumi, le muraglie e i loro guardiani, le carceri e i loro custodi, gli eserciti e i loro generali, i predoni e i loro covi. Come sono fatti i compagni di viaggio, e perché – a un certo punto – li si chiama compagni.
Come sono fatte le barche.
Come sono fatte le onde del mare.
Come è fatto il buio della notte.
Come sono fatte le luci che si accendono nell’oscurità.
Bisogna farsi viaggiatori scrive, e, prima di concludere, il messaggio che vale per ogni esperienza umana: prima di esprimere giudizi, bisogna conoscere, informarsi. Provare a mettersi nei panni dell’altro.
La terra e il cielo di prima non ci sono più laddove un nuovo cielo e una nuova terra si stagliano davanti ai loro discorsi […] È la frontiera […] La frontiera corre sempre nel mezzo. Di qua c’è il mondo di prima. Di là c’è quello che deve ancora venire, e che forse non arriverà mai.
Una scrittura capace di coniugare forma e contenuto, politica e sentimento, dolore e passione.
Vale la pena leggere, o rileggere, Alessandro Leogrande perché ha molto da insegnare. In un tempo sempre più avaro di pensieri lunghi, la voce di Alessandro è più forte e alta che mai. Lo è oggi e lo sarà, anche, domani.