Il piatto più avvelenato che la maggioranza al governo sta cucinando per un paese distratto è l’autonomia differenziata. Voluto fortemente dalla Lega e preparato con grande abilità dal ministro per gli affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli, il Disegno di legge è stato approvato dal governo all’inizio dello scorso febbraio. Prevede la possibilità per le singole regioni di avere l’autonomia nelle materie elencate al comma 3 dell’articolo 117 della Costituzione.
Le liste sono noiose ma questa va riportata per capire a quale sconquasso il nostro già disastrato Paese andrà incontro se questa riforma andrà in porto. Il testo del comma 3 è il seguente: «Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l’Unione Europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e formazione professionale (che sono già di competenza esclusiva regionale, ndr.); ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale».
Si tratta di un sistema di autonomia a la carte in cui ogni regione sceglie le materie sulle quali intende fare da sola. Se le 15 regioni a statuto ordinario scegliessero di essere autonome in tutte le competenze elencate lo Stato non dovrebbe occuparsene più, se invece le scelte delle regioni dovessero essere differenziate lo Stato manterrebbe le competenze ma le applicherebbe solo alle regioni che su quelle specifiche materie non hanno scelto l’autonomia.
Un puzzle? Un mosaico? Una follia?
Non esistono Paesi al mondo con un sistema legislativo e amministrativo asimmetrico se non in casi molto limitati e relativi a regioni piccole e marginali, e l’Italia si troverebbe ad affrontare questa prima volta essendo tra gli ultimi della classe in efficienza amministrativa e in qualità legislativa, e avendo il non invidiabile record di conflitti di competenze tra stato e regioni.
Si dice che la premessa per l’avvio di questa riforma è che lo Stato fissi i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni che dovrebbero essere uguali in tutto il Paese, e fornisca le risorse necessarie perché questa uguaglianza formale dei cittadini, ovunque risiedano, divenga reale. Se ne parla da molti anni ma fino ad oggi i Lep non stati ancora fissati e non c’è nessuna indicazione di come verrebbero finanziati. D’altra parte, non c’è nessun legame giuridico tra i Lep e l’autonomia differenziata: sembra uno scambio politico ma in realtà è un boccone avvelenato.
I problemi finanziari e amministrativi sono solo una parte, sia pure terrificante, di quello che ci aspetterebbe se la riforma andasse in porto. Perché la ricetta di Calderoli solleva questioni di equità e di livelli di disuguaglianza, di integrità dello stato, di rappresentanza internazionale degli interessi del Paese, di equilibrio tra le istituzioni con un potere enorme nelle regioni, una riduzione sostanziale, forse fatale, di quelli dello stato centrale e la compressione ulteriore di quelli dei comuni. E pone un’ipoteca sulla capacità di progredire, sull’efficienza del mercato, sulla vitalità dell’economia. Sarebbe la costituzionalizzazione del particolarismo e il ritorno all’Italia dei piccoli Stati, quella che ci ha penalizzato nei secoli passati e della quale portiamo ancora le cicatrici con le nostre disuguaglianze territoriali.
Di fronte a questa dirompente prospettiva il silenzio è assordante. Non c’è stato alcun vero dibattito politico, a metà marzo c’è stata una manifestazione dei sindaci del Mezzogiorno, l’Anci ha presentato un documento critico e ha proposto una serie di emendamenti, la Cgil ha preso posizione, ma la sensazione è che ci sia una distrazione generale e una sottovalutazione collettiva dell’impatto di questa radicale trasformazione del Paese sulla vita delle persone e delle attività economiche.
Lo statalismo di Fratelli d’Italia è ammutolito di fronte alla determinazione della Lega, l’opposizione sussurra, il Pd non ha una posizione chiara e non sembra ritenere che la battaglia contro l’autonomia differenziata sia una priorità. Non si sente nelle pagine dei giornali e nelle discussioni tra le persone l’orrore di fronte alla prospettiva di una scuola regionalizzata, di una ricerca regionalizzata, di una cultura regionalizzata, di uno sport regionalizzato.
Incredibilmente non si sente la voce delle forze economiche. Dovrebbe bastare immaginare la capacità di rappresentare gli interessi dei nostri settori produttivi in sede europea e internazionale affidata a 15 regioni ciascuna delle quali va per conto suo, per non parlare della situazione già fortemente differenziata di regioni e province a statuto speciale: neanche la Lombardia, la più grande e forte avrebbe alcun peso in qualsiasi tavolo negoziale. E immaginare la necessità per una impresa, per esempio del settore alimentare, di misurarsi con 15 normative regionali differenti; oppure la necessità di mettere d’accordo decine di soggetti ciascuno dei quali agisce singolarmente, per qualunque sistema di trasporto, rete energetica e di comunicazione. Avremo 15 normative sulla sicurezza del lavoro, 15 sistemi di protezione civile. In un Paese che fa così tanta fatica a fare sistema daremmo il massimo della forza agli interessi particolari e agli egoismi.
A quel simulacro di stato centrale che resterebbe rimarrebbe l’onere di raccogliere le tasse, perché le regioni che chiedono l’autonomia su tutto non sembrano gradire altrettanto l’onere e la responsabilità di essere loro a tassare direttamente i cittadini per coprire i costi dei nuovi e maggiori poteri. Il compito di imporre e far pagare le tasse preferiscono lasciarlo allo Stato cattivo, riservandosi la più gratificante attività di trattenere una larga quota di quelle prelevate nel proprio territorio con il subdolo meccanismo delle compartecipazioni.
L’itinerario di questa riforma è complesso, ma una maggioranza compatta potrebbe condurla in porto. Stiamo attenti, il rischio è enorme e lo stiamo tutti sottovalutando. E chi non lo fa pensa che questa riforma sarebbe un problema solo per il Mezzogiorno e invece anche il Nord pagherebbe un prezzo altissimo e sarebbe un dramma per l’intero Paese.
a una seria azione dell’opinione pubblica, una reazione adeguata degli interessi che sarebbero colpiti potrebbero portare ad un esito diverso. Perché del sistema regionale non siamo soddisfatti, della confusione dei poteri che non consente al cittadino di capire di chi è la responsabilità delle scelte non siamo contenti e dell’efficienza delle amministrazioni lo siamo meno che mai.
Si potrebbe allora lavorare a una ridefinizione dei termini di questa riforma, individuando le materie il cui decentramento aumenterebbe il livello di efficacia e di efficienza, sciogliendo la confusione dei poteri tra Stato e regioni, rafforzando le competenze e la capacità di controllo delle varie amministrazioni, ridando fiato ai comuni, lavorando sui livelli essenziali delle prestazioni per ridurre effettivamente le disuguaglianze territoriali, ricostruendo in questa battaglia il rispetto perduto nei confronti delle istituzioni centrale e territoriali.
Una bella battaglia, che vale la pena di combattere.