Un importante nome letterario presenta significati inesplorati, nonostante le apparenze: quello di Beatrice, simbolo di tutte le donne stilnoviste da Dante Alighieri a Eugenio Montale.
Nella Vita Nova Beatrice non è un nome ma un attributo, una proprietà: in tutta l’opera il poeta non fa che cercare il nome più appropriato, e promuove a tal fine una sorta di inchiesta fra gli amici. Nella Commedia, poi, quando ormai l’appellativo Beatrice sembra consolidato come nome proprio, Dante evita di pronunciarlo, secondo la stessa magica concezione che lo porta a evitare sia il nome di Gesù che quello di Dio. Il nome di Beatrice, come quello di Cristo, diviene figura tragica della passione, e la sua tragedia è la stessa di Cristo: con la Vita Nova si forgia anche lo «stil novo», e solo dopo l’elaborazione del lutto Dante potrà ridenominare la donna che, senza essere una vera santa, è la sua santa.
La tragedia di Beatrice è la stessa di Cristo.
Soltanto trasformando la tragedia umana in tragedia cristiana la morte diviene un’apocalisse accettabile: «esta vita noiosa / non era degna di sì gentil cosa» (Gli occhi dolenti per pietà del core, 20.8), e soltanto trasformando il senhal – attributo della donna vivente nel nome di Beatrice, definitivamente conquistato a partire dalla sua scomparsa, il poeta può placare il proprio dolore.
Nel diario amoroso la particolarità di Beatrice è quella di essere senza nome. Egli afferma due verità sulle quali forse non si è riflettuto abbastanza: Beatrice non è soltanto un senhal per proteggere l’identità della donna amata, ma fin dal principio il poeta assume l’attributo come nome perché determinato da una sorta di vox populi all’interno del gruppo di poeti e amici: la gloria di quella donna è una proprietà che appartiene solo alla mente di Dante, ma la sua capacità di donare beatitudine è riconosciuta da tutti: così non avrà il nome di Gloriosa, ma di Beatrice. Per tutto il prosimetro il poeta continuerà ad avere presente quel nome come un non-nome, indicando la donna con articoli e aggettivi in cui la deissi conferma la natura dell’appellativo e la complicità del gruppo nel riconoscerlo. In poesia, soltanto in due casi, in morte della donna, cita il nome: nel primo caso, lo fa due volte nella stessa canzone, «Ita n’è Beatrice in l’alto cielo», e «chiamo Beatrice» (Gli occhi dolenti per pietà del core, 20, 8), nel secondo caso c’è già la visione finale della beatificazione: «spesso ricorda Beatrice» (Oltre la spera che più larga gira, 30.10); in un solo altro caso, in una parola-rima, la chiama «monna Bice» (15.8).
La condizione di Dante è quella di colui che accetterà la consolazione di nominare la donna soltanto quando avrà appreso come dire di lei «quello che mai non fue detto d’alcuna»: l’atto che sancirà la sua accettazione della tragedia consisterà nel chiamarla, trasformare l’attributo in un nome vero e proprio. Qui si evidenzia la differenza tra Dante e Francesco Petrarca: nella canzone-preghiera (366) che chiude i Rerum Vulgarium Fragmenta il Petrarca chiama la Vergine «vera beatrice», ribadendo la minuscola e il carattere attributivo della designazione, in contrapposizione a Dante, che attribuisce invece quella funzione a una donna in armonia con la Madonna. Laura non potrà mai essere vera beatrice, né, soprattutto, essere Beatrice, perché il suo occhio impietratore non concede elevazione, neppure all’uomo di nobile cuore.
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Il nome delle donne. Modelli letterari e metamorfosi storiche
A questo tema Giusi Baldissone ha dedicato due libri, Il nome delle donne. Modelli letterari e metamorfosi storiche tra Lucrezia, Beatrice e le Muse di Montale (Franco Angeli, Milano 2005) e Nomi femminili e destini letterari (Franco Angeli, Milano 2008).