Benedetto XVI e Celestino V, il loro atto è rivoluzionario

Luigi Vicinanza

Benedetto XVI, Papa Ratzinger, è già entrato nella Storia. Già prima di lasciare la vita terrena all’età di 95 anni, nell’ultimo giorno del 2022 dedicato a San Silvestro, Joseph Ratzinger ha conquistato l’eternità. E chissà, forse, la santità. Il teologo della grazia divina e del dialogo tra le religioni monoteiste condivide l’unicità dell’abdicazione solo con un altro pontefice di Santa Romana Chiesa: quel Celestino V, santo così poco venerato oltre i confini della città dell’Aquila, nei cui confronti invece Benedetto XVI aveva mostrato un interesse e una devozione mai registrati prima nei 700 anni di distanza che intercorrono tra i due papati. Segni premonitori, mal compresi, di una rinuncia clamorosa e sorprendente annunciata da Benedetto la mattina dell’11 febbraio 2013. Quel discorso pronunciato in latino con il quale il vicario di Dio in terra si umilia ammettendo la sua umana debolezza, la sofferenza di fronte agli anni che avanzano impietosi («ingravescentem aetatem») e la sua incapacità di proseguire il magistero petrino («incapacitatem meam»). Un atto sofferto che ha aperto le porte al Papa regnante, Francesco, venuto dall’altro capo del mondo.

Un primo segno di quel che sarebbe accaduto porta la data del 28 aprile 2009, appena quattro anni dopo l’incoronazione. Il quel giorno limpido e leggermente ventoso Papa Benedetto volle visitare L’Aquila. Il capoluogo dell’Abruzzo era ridotto in un cumulo di macerie per il devastante terremoto di tre settimane prima. Il pontefice decise di recarsi in pellegrinaggio nella basilica di Collemaggio, sventrata dal sisma, dove sono custodite le spoglie di Celestino. Il rigido protocollo prevedeva che Ratzinger dovesse restare sul sagrato, per evidenti motivi di sicurezza. Ma a sorpresa, sfidando il pericolo incombente, entrò nella chiesa pericolante e appoggiò in dono sulla teca del santo il suo pallio, la preziosa sciarpa di lana ricevuta il giorno dell’incoronazione. Mai nessun altro pontefice aveva compiuto un atto simile, né fu un gesto d’impulso. Era meditato. Infatti, l’anno dopo Benedetto XVI ritornò nei luoghi celestiniani dopo aver pubblicato l’enciclica in cui si afferma: la dottrina sociale cristiana è «aperta alla verità da qualsiasi parte provenga» («Caritas in veritate», 9).

Io ero all’Aquila quel 28 aprile 2009, dirigevo il quotidiano abruzzese il Centro, «la Bibbia del terremoto» come, con un giudizio oltremodo gratificante, disse una suora che mi capitò di incontrare qualche mese dopo in città.

Ricordo allora la sorpresa e l’imbarazzo dei vigili del fuoco che scortavano il Papa. Non si aspettavano che si avvicinasse così tanto alla teca celestiniana posta sotto la volta d’ingresso della basilica. Il rischio di improvvise scosse, e dunque di crolli, era immanente. Era in pericolo la stessa incolumità del pontefice. Ma Ratzinger non se ne preoccupò, aveva tenuto ben segreta la sua intenzione. Certo, i giornali raccontarono l’episodio, ma non capimmo.

Poco più di un anno dopo, il 4 luglio 2010, Benedetto XVI tornò in Abruzzo, a Sulmona stavolta, cittadina di antica spiritualità, poco più di un’ora di auto dalla capitale della cristianità, ai piedi dell’eremo del Morrone dove Pietro Angelerio, prima di diventare Celestino V, conduceva una vita umile e di preghiera. Ratzinger arrivò a Sulmona nel pieno della bufera abbattutasi sulla Chiesa, con troppi preti accusati in varie città d’Europa di essersi macchiati del crimine della pedofilia. Celestino e Benedetto, fu un incontro tra Storia e attualità. Ratzinger a Sulmona ammise con sofferenza che i pericoli più grandi per la Chiesa provenissero dal suo stesso corpo: «Il danno maggiore lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità».

Sette secoli dopo l’avventura del frate del Morrone, il teologo tedesco si ritrovò a dover fronteggiare un potere gerarchico, di cui pure egli stesso era stato un nome autorevole e influente, restio alla trasparenza, omertoso, resistente al principio di responsabilità, a volte compromesso con gruppi affaristici senza scrupoli. La sua abdicazione fu dunque un atto rivoluzionario. Rinunciò a un potere senza pari, spirituale e temporale al tempo stesso. Chi più autorevole del Papa? In fondo, oggi, neppure l’americano Biden o il russo Putin lo sono.

Il lascito di Ratzinger è chiaro: se un pontefice si umilia rinunciando al trono, tutta la gerarchia di Santa Romana Chiesa è chiamata a umiliarsi. E, se richiesto, anche a farsi da parte. Se addirittura un Papa può dimettersi, perché mai dovrebbero essere considererete intoccabili le posizioni di cardinali, vescovi, prefetti e amministratori dell’immenso patrimonio ecclesiastico? Anche Papa Bergoglio, in una recente intervista, ha rivelato di aver già scritto la lettera delle sue dimissioni in caso di una grave malattia che gli dovesse impedire l’esercizio del sacro magistero. Un altro messaggio chiaro alla gerarchia vaticana. Chi tra i potenti porporati può sentirsi esentato dal farsi da parte?

Possiamo oggi sostenere che la difficile strada del rinnovamento spirituale intrapresa in questo ultimo decennio da Papa Francesco, con coraggio ma non senza qualche inciampo e resistenze più o meno esplicite, è stata tracciata dal suo predecessore, il Papa emerito. Una chiesa sbandata e smarrita, ma sempre alla ricerca del Dio fatto uomo.

«Se esiste in noi un autentico amore per Dio e per il prossimo, amore gratuito e soprannaturale, avremo anche il vero “amore del mondo”, l’amore per il mondo di Dio nella sua creazione, nel suo posto, nella sua forma» scriveva Joseph Ratzinger nel 1969 (Il Vangelo della grazia). Per dirla con linguaggio laico: l’utopia, come senso del rimorso della Chiesa terrena.

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