Berlusconi ha cambiato l’Italia, ma non l’ha migliorata

Sua Emittenza. il Grande Comunicatore. Il Cavaliere. L’Unto del Signore. Per comprendere il ruolo storico di Silvio Berlusconi nella vita pubblica politica del Paese, occorre riprendere i molti nomi coniati dai giornali, che hanno scandito la sua storia. Appellativi diversi, che potrebbero celare il nome più appropriato: l’inventore della seconda Repubblica. Inventore più che innovatore.

L’inventore l’introduce cambiamenti radicali ma, come aveva già notato Joseph Schumpeter, non si tratta necessariamente di un nuovo prodotto, può trattarsi del riadattamento del vecchio in un mix inedito. L’innovazione invece avvia un processo, che richiede tempi lunghi, la mobilitazione di conoscenze e abilità per essere perfezionata, strutturata. L’inventore trova un’idea, una soluzione originale. Che non è detto lasci un patrimonio ereditario (l’insieme delle proprie forme, caratteristiche, proprietà), ma solo una successione. Essere inventore si associa alla sua natura di imprenditore economico e politico. Berlusconi ha realizzato alcune invenzioni di rilievo, che hanno trasformato la Prima Repubblica: l’invenzione della televisione privata in Italia; l’invenzione della destra politica e del partito personale a cui si aggiunse la nascita del bipolarismo e la rivoluzione dell’offerta politica come prodotto di marketing nel nostro Paese. Berlusconi ha creato un immaginario in cui si sono formate più generazioni. Ha contribuito a cambiare il Paese, ma non l’ha reso migliore. Ha detto l’informatico americano Alan Kay: «Il modo migliore per predire il futuro è inventarlo». Berlusconi avrebbe potuto farne il titolo della sua storia.

Berlusconi ha officiato il matrimonio tra la Tv e la politica. Il Cavaliere, sostenuto dal Psi di Craxi e dalla Dc di Forlani e Andreotti, è riuscito a rompere il monopolio pubblico della Rai. E su questa avventura imprenditoriale e culturale ha costruito le sue fortune economiche. In seguito, favorito dalla crisi della Prima Repubblica, ha compiuto il passo successivo: ha connesso Tv e politica. A facilitare questa invenzione è stata probabilmente la sua naturale attenzione alla cultura popolare in cui la Tv dominava. Sulle sue reti, Berlusconi ha avviato una popolarizzazione della politica, spostandone la prospettiva della politica. Come spiegano i professori Mazzoleni e Sfardini nel libro, Politica Pop, Berlusconi ha infranto una serie di confini tradizionali. La politica non era più un’esclusiva della rappresentazione mediatica, vale a dire dell’informazione, ma diventò un tema dell’industria dell’intrattenimento.

In questo modo, il Cavaliere mise al centro la logica mediale, che contaminava e si contaminava con la logica politica. Nacque cioè la politica pop imperniata sulla personalizzazione e sulla spettacolarizzazione. I personaggi e gli avvenimenti della politica non venivano più raccontati con un linguaggio da addetti ai lavori, non erano influenzati dalla complessità sociale e dalla autoreferenzialità del sistema dei partiti, non erano cioè una realtà lontana dalla vita quotidiana dei cittadini. Grazie alla tv la politica diventò un mondo familiare, oggetto di interesse e di curiosità, argomento di discussione a cena in famiglia, fonte di divertimento, come i personaggi e le storie dello spettacolo. Il risultato di questa svolta berlusconiana fu una americanizzazione accelerata del Paese, che si trovò ad archiviare modelli, equilibri, liturgie del passato. La commistione tra narrazione politica, cultura popolare e tv produsse come risultato una sorta di frattura modernizzante nel sistema politico e nell’opinione pubblica.

Nel nuovo scenario televisivo i conflitti, gli interessi e i valori, non scompaiono. Ma tutto cambia sul palcoscenico sul quale ora i leader si esibiscono come nuovi attori chiamati a esprimere il loro carisma nella performance mediatica. L’obiettivo è ottenere la visibilità, l’attenzione, il consenso dei telespettatori-cittadini. La lotta politica assume la forma della gara tra celebrità più che dello scontro tra posizioni diverse.  Complice di questo mutamento è il declino dei partiti tradizionali che avevano caratterizzato il dopoguerra. L’arena politica subiva il nuovo linguaggio dei media.  Ai politici si spalancava la possibilità di raggiungere un pubblico di massa con format diversi e in orari differenti, ma la classica competizione per il potere era ormai sfigurata. La rappresentazione politica non poteva più essere la stessa, perché al suo centro si installava la comunicazione. Berlusconi applicava alla ricerca del consenso i metodi del marketing commerciale. Il campo progressista sembrava non accorgersi di quanto stava accadendo e semmai condannava la deriva della «politica spettacolo».

Berlusconi sapeva che la Tv e i media hanno la forza di costruire la realtà attraverso la selezione, la gerarchizzazione, la confezione delle notizie. Sapeva che i criteri di notiziabilità di un fatto alla fine ponevano una domanda: questa notizia interessa o no il lettore che acquista il giornale o guarda la tv? La Tv si pone la stessa domanda quando pianifica il palinsesto che deve allargare l’audience e vendere pubblicità. La produzione dei media e dello spettacolo tv non può evitare di misurarsi con la logica commerciale, se non vuole perdere pubblico e profitti. Inoltre, la logica mediale implica una serrata competizione interna tra i media per la conquista e il presidio di segmenti di mercato. Sua Emittenza lo sapeva bene, perché era uscito come vincitore indiscusso dal confronto con gli altri imprenditori televisivi privati in Italia. Inoltre, la media logic, come l’hanno definita Altheide e Snow, si riflette sui contenuti e sullo stile dei leader. Sempre più premier, ministri, leader in tv devono adattarsi alla esigenza di semplificazione, alla capacità di stare sulla scena, alla abilità di suscitare emozioni e non solo di proporre programmi convincenti.

Cominciò così il processo di mediatizzazione della politica, come lo hanno definito Mazzoleni e Schulz, sia pure nella versione italiana. Ma questo processo ne innescò uno parallelo. In Italia tra politica e informazione c’era sempre stato un rapporto che gli studiosi Mancini e Hallin, nel libro Modelli di giornalismo, hanno definito parallelismo, cioè una reciproca influenza e intreccio. La tv commerciale avrebbe potuto segnare una presa di distanza dell’informazione dalla politica, i suoi solidi bilanci avrebbero potuto rafforzare l’allontanamento se non l’emancipazione dell’informazione dalla politica. Ma Berlusconi ha compiuto la scelta opposta: se la politica doveva accettare le regole della tv e dell’informazione, a sua volta ambiva a influenzare e controllare i media. Con Berlusconi si inaugurò un nuovo connubio in cui l’informazione dipendeva dalla politica. Prima l’informazione seguì la grammatica dello spettacolo nell’infotainment, poi la politica la imitò nel politainment. Con Berlusconi lo storico dualismo media-politica si concentrò in una sola persona. Era l’origine del futuro conflitto di interessi.

L’invenzione della tv privata e il suo successo hanno avuto l’effetto di preparare la trasformazione del pubblico televisivo in elettorato. Il telespettatore si confondeva con il cittadino consumatore di informazione-spettacolo e politica-spettacolo, a cui si rivolgevano le persone meno attratte dall’informazione più autorevole. Il nuovo contesto italiano spinse presto Berlusconi ad agire. Le sue aziende erano cresciute all’ombra della Prima Repubblica, conquistando un primato finanziario e di audience, ma l’inchiesta di Mani Pulite stava innescando una crisi di sistema. La magistratura e il clamore dei media, che le davano ampio spazio, avevano provocato una duplice reazione nell’opinione pubblica: da una parte il discredito dei partiti tradizionali ritenuti coinvolti nella corruzione; dall’altro una sfiducia generalizzata verso la politica, quasi un rigetto, e la ricerca di una classe dirigente nuova, non coinvolta negli scandali, dotata di senso morale e di competenza. Berlusconi agì da imprenditore: capì che il vuoto aperto nel regime democratico avrebbe potuto favorire la sinistra, intuì che si formava un nuovo mercato del consenso. La crisi della politica della mediazione e l’avvento di un clima favorevole a nuovi leader, un’attesa diffusa di novità radicali, una domanda di semplificazione della vita pubblica, crearono il contesto adatto per l’operazione berlusconiana. Si fece strada l’idea di un politico manager, amministratore di un sistema paese gestito con stile imprenditoriale.

Berlusconi rispose inventando il partito personale. Fondò Forza Italia nel 1993 e vinse le elezioni l’anno seguente. Ma l’importanza della nuova formula, come ha spiegato il professore Calise nel libro Il partito personale, consisteva nel fatto che il Cavaliere unì tre elementi diventati centrali nella società moderna: la personalizzazione, la comunicazione, l’organizzazione.

La struttura dei partiti tradizionali non riusciva più a rispecchiare la società che era cambiata; il vincolo della appartenenza e quello ideologico si erano allentanti; la propaganda non riusciva a mobilitare le coscienze come in passato. La Tv privata era stata la prima mossa vincente per impadronirsi dei nuovi linguaggi e delle logiche moderne. Il partito personale, Forza Italia, era la conseguenza di quella ascesa: l’azienda che si faceva partito. Un partito flessibile, leggero, che si riconosceva in un leader carismatico e la cui struttura organizzativa era composta da dipendenti di Publitalia, la società pubblicitaria della Fininvest. Del resto, l’immagine e la comunicazione erano diventati determinanti. Il partito personale mostrò presto la sua caratteristica di fondo: lo stile comunicativo e programmatico fecero emergere un populismo rassicurante.

I tratti del partito personale erano essenzialmente due: l’identificazione tra il leader e il popolo di cui Berlusconi non si stancava di proclamarsi interprete e difensore; la denuncia della élite politica, ideologica, professionale del passato e della sinistra a cui veniva attribuita ogni colpa. Il Cavaliere anticipò così il ciclo dell’antipolitica e del populismo. Con quell’atto, però, Berlusconi inventò anche la destra come alleanza di governo. Dopo la guerra nazi-fascista, nel Paese la parola destra era stata per anni quasi un tabù. De Gasperi aveva descritto la Dc come «un partito di centro che guarda a sinistra» e la Dc, tranne che in alcuni momenti, non si discostò molto da questa linea. Il Msi era fuori dell’arco costituzionale e dei giochi politici. In realtà la destra italiana era un ricordo risorgimentale che risaliva a Cavour. Berlusconi però richiamò in servizio la pregiudiziale anticomunista, costruì il nemico di cui aveva bisogno, sdoganò il Msi di Fini al sud e la Lega di Umberto Bossi al nord.

Il Cavaliere, dunque, compose la sua offerta rivolgendosi agli elettori orfani dell’anticomunismo, anche se il comunismo era ormai un fantasma (il Pci non c’era più), e dei vecchi partiti. Accusò la sinistra di dirigismo, centralismo, statalismo. Inventò due alleanze simmetriche, con due alleati che allora non avevano buoni rapporti: uno secessionista e l’altro postfascista. L’arco costituzionale in versione berlusconiana doveva legittimarsi con la sconfitta della sinistra. Al muro di Berlino, crollato nel 1989, sostituì il muro di Arcore. L’atto di nascita della II Repubblica ha marcato il berlusconismo come nuova linea di frattura del Paese in cui l’esclusa non era più la destra, ma doveva essere la sinistra. La sinistra aveva partecipato alla Resistenza, alla scrittura e alla promulgazione della Costituzione, questa rottura segnò la storia recente del Paese, trascinando rancori e aspri dissensi fino ad oggi. La stessa figura di Berlusconi divenne divisiva: l’Italia si trovò berlusconiana o antiberlusconiana con due coalizioni contrapposte. La divisione tra due poli favorì la nascita di un bipolarismo in cui si doveva competere per il governo. Ma a livello nazionale si trattò di un bipolarismo anomalo, inquinato dalle scelte partigiane di Berlusconi. Nei comuni e nelle regioni la competizione era svelenita e presto fu accettata, a Roma lo scontro fu duro. Il Paese faticava a diventare una democrazia normale, i due poli non si legittimavano a vicenda.

Il Cavaliere, del resto, proseguì sulla linea del populismo. Utilizzò il mito della società civile italiana, onesta e virtuosa, posta in contrapposizione con le oligarchie dei partiti. Incentrò la narrazione su sé stesso, sulla sua immagine di imprenditore di successo, di self made man orgoglioso della sua origine borghese, della sua famiglia, dei suoi valori liberali. Il messaggio era: sono uno di voi. La narrazione di sé stesso come leader di una nuova Italia governata da un «liberalismo popolare» suonò rassicurante, moderata. Il Cavaliere assunse su di sé la rappresentanza delle rivendicazioni della parte del Paese insofferente agli eccessi e alle inefficienze dello Stato. Berlusconi si presentò e si rappresentò come l’imprenditore che vuole tornare a fare funzionare il sistema, a mettere a posto i conti, a garantire chi vive del proprio lavoro. Ma se il Cavaliere parlava ad una vasta platea, in realtà, spiega il professor Mastropaolo nel libro L’antipolitica, gli interlocutori privilegiati erano gli imprenditori, gli autonomi, i professionisti, un blocco sociale a cui proponeva un contratto stipulato in diretta tv con Bruno Vespa, che non verrà mai realizzato. Un contratto che confermava il modello dell’imprenditore che si impegnava per il bene comune, pronto a tornare a fare il suo mestiere una volta finito il lavoro.

Il linguaggio che Berlusconi utilizzava era chiaro, semplice, diretto e attingeva a piene mani alle metafore del calcio come linguaggio popolare: Forza Italia è più un grido entusiasta in cui non ci possono essere distinzioni; la sua era una «discesa in campo». Il Cavaliere promise di salvare il Paese dal disastro causato da élite inconcludenti e disoneste. Nel suo discorso riecheggiava persino il Vangelo: lui era «costretto a bere l’amaro calice», cioè candidarsi per amore del Paese. Egli si era «improvvisamente trovato davanti qualcuno bisognoso di aiuto». Entrare in politica, quindi, era un atto morale, la risposta a una «chiamata alle armi», a un desiderio «che sale da tutto il Paese, dalle persone di tutte le categorie». Occorreva la sua «esperienza di uomo del fare» a una nazione che esprimeva la «voglia di una politica diversa, una politica pulita». Ecco «l’unto del Signore» pronto a ricevere l’investitura popolare, che non perdeva occasione per rimarcare la sua estraneità rispetto al «teatrino della politica». Per riuscire nella missione, Il Cavaliere si dichiarò pronto a formare una squadra capace di vincere ogni campionato, come il suo Milan vinceva in Italia e in Europa. In una intervista al Financial Times nell’ottobre 2000 spiegò: «Molta gente sa che se l’uomo più ricco d’Italia vuol governare il Paese, non lo fa perché vuole diventare più ricco, ma perché vuole la completa fiducia, l’affetto, l’amore e il rispetto della gente». Il Cavaliere poneva narcisisticamente sé stesso al cuore della sua narrazione e sembrava suggerire che il suo carisma derivava dalla sua persona più che dalle sue abilità politiche. Il «grande comunicatore» aveva un peso decisivo.

Del resto, Berlusconi ha sempre mostrato la capacità di sintonizzarsi con il pubblico. Negli anni della tv aveva rivelato di saperne cogliere i sentimenti, le aspettative, i desideri. Si trattava della dote dell’empatia. Possedeva una forza comunicativa e un istinto per il marketing che lo portava a valorizzare le virtù dell’uomo medio, il suo cliente di riferimento. Sapeva toccare tutti i tasti del sentire comune dei telespettatori-consumatori. Il paese reale era opposto al paese legale del Palazzo. Non a caso disse di avere i brividi quando pensava che Forza Italia sarebbe diventato un partito, mentre doveva restare il «partito della gente di buon senso e di buona volontà». Il popolo che Berlusconi evocava era il popolo cui attribuiva le qualità positive che chiedeva di vedere riconosciute a sé stesso. Non mancava nella sua retorica il richiamo ad «aiutare chi è rimasto indietro», con l’accusa alla sinistra di tutelare solo i già protetti. Comparve allora l’appello al popolo nel discorso berlusconiano: «Noi vogliamo che il popolo diriga lo Stato, non che lo Stato diriga il popolo».

E non mancavano i richiami alla identità nazionale. Berlusconi, quindi, cercò di ottenere un consenso plebiscitario per un progetto di destra liberista. Anche per questo mostrava una certa insofferenza per le limitazioni cui sono soggette le istituzioni elettive nel quadro della divisione dei poteri. Le viveva come ingerenze, come quelle dei magistrati che indagavano su di lui, che non erano legittimati dal basso come era invece l’imprenditore eletto dal popolo. Tutti questi elementi mostravano come Berlusconi abbia rivoluzionato l’offerta politica, costruita su un attento esame dei sondaggi tra gli elettori e su una eccedenza delle promesse che è diventata famosa. Tra le più note: 1 milione di posti di lavoro, le pensioni minime a mille euro, rimaste sulla carta, che testimoniano il suo desiderio di ricevere un mandato ampio. L’offerta cioè sembrò concepita per potere parlare direttamente in nome del popolo e per il popolo, come ha scritto Taguieff nel libro L’illusione populista, denunciando il sistema e offrendo di realizzare una democrazia autentica.

L’offerta aveva il compito di interpretare e rivendicare la rappresentanza dei settori sociali e prospettare loro un mondo possibile in cui riconoscersi. Un metodo lontano dalle proposte più ideologiche della Prima Repubblica. Ma forse la novità della sua offerta fu quella di delineare un immaginario in cui l’italiano medio potesse rispecchiarsi. La televisione aveva introdotto nel suo repertorio un immaginario, vale a dire un insieme di idee, rappresentazioni, immagini del mondo, valori, aspirazioni differenziati. L’ideologia è una concezione del mondo omogenea, coesa, strutturata che dalla politica si rivolge verso la società, l’immaginario è un prodotto autonomo, sociale e del sistema dei media. Berlusconi colonizzò con la Tv l’immaginario degli italiani, proponendo una visione di destra, conservatrice. Il liberismo doveva esserne il perno, il collante era la figura del leader e la sua capacità narrativa e simbolica.

Nei giorni del cordoglio, una prima analisi politica della vicenda berlusconiana deve concentrarsi sul Berlusconi imprenditore politico. Ma c’è un lato oscuro del potere berlusconiano da non dimenticare: la iscrizione alla P2, le indagini dei magistrati a cui è stato sottoposto tra cui la condanna per frode fiscale, il ruolo delle donne nella sua vita privata e nei processi che ne sono scaturiti, suscitano non pochi interrogativi sulla sua figura. Ci furono poi le leggi ad personam e le polemiche che ne sono scaturite. Ma un bilancio politico provvisorio del berlusconismo deve forse concentrarsi sulle promesse mancate.

Berlusconi subentrò a Prodi che aveva condotto il Paese nell’euro, ma non gestì bene l’ingresso nella moneta unica e soprattutto non realizzò le riforme strutturali che avrebbero potuto rendere più moderno, efficiente e competitivo il Paese e la sua economia. Eppure, era una sfida degna di un imprenditore. Neppure la rivoluzione liberale arrivò mai. L’Italia perse la prima occasione di agganciare le grandi democrazie europee.

Una seconda questione su cui soffermarsi è il conflitto di interessi a cui non è mai stato data una soluzione equilibrata: un grande potere economico e mediale si era consacrato potere politico, rendendo ancora più anomala la democrazia italiana. Da Palazzo Chigi favorì gli interessi di alcuni ceti (imprenditori e autonomi) a svantaggio di altri (lavoratori, disoccupati, precari). Nella fase finale del suo governo, Berlusconi dovette dimettersi mentre lo spread aveva superato i 500 punti e il Paese rischiava il collasso finanziario sui mercati internazionali. Dimissioni che Berlusconi cercò poi di giustificare invocando un complotto internazionale contro di lui, e negando ogni responsabilità. Il presidente Napolitano dovette chiamare il professore Monti per una terapia d’urgenza cui sottoporre il Paese. Quattro governi del Cavaliere avevano lasciato una società divisa, quasi fosse in guerra con sé stessa, un sistema economico in difficoltà, che non aveva risolto nessuno dei suoi nodi strutturali. Le promesse e i contratti in tv si rivelarono un’illusione pubblicitaria. L’Italia era cambiata, ma non era migliorata.


Il disegno che accompagna l’articolo è di  Carlos Amorim (Brasile). Vignettista editorialista pluripremiato, è nato nel 1964 in Brasile, a Rio de Janeiro. Ha iniziato a pubblicare il suo lavoro presso il Pasquim, un giornale umoristico. Attualmente pubblica le sue vignette editoriali, caricature e fumetti in molti giornali e riviste brasiliane. Ha prodotto testi umoristici e animazioni per la rete televisiva Rede Globo ed è autore di un fumetto intitolato Canastra Suja.

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