Bob Dylan è una moltitudine. Retrospectrum

Bob Dylan, Retrospectrum | foto ©Musacchio, Ianniello, Pasqualini & Fucilla, courtesy Fondazione MAXXI

Alla Galleria 5 del MAXXI ci si arriva salendo una bella e comoda scala, ampia. Ampio è anche l’ingresso del museo e dunque in questo primo tratto che si percorre tra la biglietteria e le sale espositive non si avverte, non ancora, il passaggio tra il fuori e il dentro. La sinuosità della salita che introduce alle sale funziona da camera di compensazione, come se Zaha Hadid, l’architetta che ha pensato e realizzato il MAXXI (prima donna a vincere il Premio Pritzker nel 2004), avesse voluto preparare i visitatori all’immersione nel mondo dell’arte.

E infatti dopo aver superato la soglia d’ingresso, una tenda con immagini in bianco e nero del protagonista della mostra, (Bob Dylan. Retrospectrum, a cura di Shai Baitel) si entra in un mondo altro.

La luce è più soffusa, dominano i toni di grigio illuminati dai colori delle tele, dalle immagini che provengono dai grandi schermi con la voce, inimitabile, di Bob Dylan come colonna sonora del viaggio.

Un viaggio sorprendente che ci svela una parte poco conosciuta della vita artistica di Robert Allen Zimmermann, nato a Duluth nel Minnesota (Stati Uniti d’America) il 24 maggio del 1941.

Aspetti poco conosciuti della sua arte, in questo caso quadri e sculture, «è molto diversa dalla mia musica, naturalmente, ma ha lo stesso scopo» avverte lo stesso Dylan, ma alla fine del percorso ci si accorge che tutto ciò che abbiamo visto, tutto ciò che abbiamo ascoltato, tutto ciò che abbiamo letto, erano già parte del nostro immaginario. Un po’ come quando si va a New York per la prima volta. Abbiamo tante aspettative, che ovviamente saranno appagate, ma ci accorgiamo che quegli edifici li abbiamo già visti, quelle strade le abbiamo già percorse, quei volti li conosciamo.

Bob Dylan scrive per indagare e raccontare la condizione umana, l’America, se stesso. Scrive utilizzando tecniche e strumenti diversi: canzoni, quadri, sculture, libri. Scrive, infine, per creare qualcosa di nuovo, di completamente nuovo e mai visto prima.

Un’artista poliedrico che ha venduto oltre 125 milioni di dischi, vinto un Nobel per la Letteratura («per aver creato una nuova espressione poetica nell’ambito della grande tradizione della canzone americana»), premi Grammy, Oscar, Golden Globe, Pulitzer («il suo profondo impatto sulla musica popolare e sulla cultura americana, segnato da composizioni liriche di straordinaria potenza poetica»).

Una mostra sorprendente che svela aspetti di Dylan tra i meno studiati.

Mentre attraversavo le sale e guardavo, sorpreso, le sue opere, mi è venuta in mente una frase di Andrea Pazienza in Le straordinarie avventure di Penthotal: «E ringraziate che ci sono io, che sono una moltitudine». Eh sì, perché dopo aver visto quello che vedrete in questa mostra non potrete non pensarlo: Dylan è una moltitudine.

«Che cosa disegnavo? Beh, credo di aver iniziato con ciò che avevo a portata di mano. Mi sedevo al tavolo, prendevo carta e matita e disegnavo la macchina da scrivere, un crocifisso, una rosa, matite, coltelli, spilli, pacchetti di sigarette vuoti. Perdevo completamente la cognizione del tempo. Potevano passare un’ora o due e sembrava un minuto. Non che pensassi di essere un grande disegnatore, ma sentivo che stavo mettendo ordine nel caos che avevo intorno […] Notavo come l’esperienza del mio occhio ne usciva purificata: decisi che avrei continuato a disegnare per conto mio negli anni a venire».

Questa è una delle didascalie che leggerete durante il percorso espositivo e che troverete nel catalogo della mostra, scritta da Dylan è parte della mostra stessa.

Ha sempre disegnato, dunque. E l’aver esposto i disegni insieme alle opere più compiute, anche di grandi dimensioni, aiuta a comprendere la nascita, l’evoluzione e la condizione attuale dell’artista.

Emozionante, almeno lo è stato per me, leggere i testi delle sue canzoni scritti in bella grafia su fogli tutti uguali, accompagnati da disegni a grafite su carta.

Like a Rolling Stone è accompagnato da un disegno di un uomo su una sedia che potrebbe essere Marlon Brando o Napoleone, Mr. Tambourine Man dalle rovine di una città romana, Blowin’ in the wind dall’ingresso di un cimitero, Hurricane da un buddista incarcerato, The times they are a-changin’ da una mano che scrive.

In Chronicles, volume 1, scrive: «Non so esattamente quando mi venne in mente di scrivere canzoni. Anche volendo dare un’idea di come io vedevo il mondo, non sarei stato capace di venir fuori con niente di lontanamente paragonabile ai versi delle canzoni folk che cantavo. Sono cose che accadono per gradi. Non ci si sveglia un bel giorno con il bisogno di scrivere canzoni, specialmente se si canta già, se ne hanno molte in repertorio e ogni giorno se ne imparano di nuove».

I disegni che accompagnano i testi di queste canzoni e le parole che lui stesso scrive ci permettono di avvicinarci al processo creativo da cui nascono.

Ancora. «Non riuscivo a mettere in parole esattamente quello che cercavo, ma cominciai a fare una ricerca sistematica iniziando dalla Pubblic Library di New York, un edificio monumentale con pavimenti e mura di marmo, vuote e spaziose caverne e soffitti a volte. Un luogo che risplende di trionfo e di gloria ogni volta che ci si entra. In una delle sale di lettura del paino superiore mi misi a leggere articoli di giornale in microfilm, dal 1885 al 1865, per capire com’era la vita quotidiana a quei tempi. Non mi interessavano tanto i problemi dell’epoca quanto il linguaggio e la retorica allora in voga».

Dunque, immagini visive, applicazione, letture e studio per comporre parole da mettere in musica.

«Quello che feci per liberarmi dalle costrizioni fu solo di prendere semplici giri folk e metterci nuove immagini e un nuovo atteggiamento, usare frasi accattivanti e metafore combinate con un nuovo insieme di regole che si evolvevano in qualcosa di diverso e mai sentito prima».

Un processo creativo simile a quello di Charles Bukowki che per cercare la sua strada di scrittore frequentò a lungo un posto simile alla Pubblic Library di New York, «Ero giovane, saltavo i pasti, mi ubriacavo e mi sforzavo di diventare uno scrittore. Le mie letture andavo a farle alla biblioteca pubblica di Los Angeles, nel centro della città, ma niente di quello che leggevo aveva alcun rapporto con me, con le strade o con la gente che le percorreva. Mi sembrava che tutti giocassero con le parole e che i cosiddetti grandi scrittori non dicessero un accidente di niente […] Poi, un giorno, ne presi uno e capii subito di essere arrivato in porto. Rimasi fermo per un attimo a leggere, poi mi portai il libro al tavolo con l’aria di uno che ha trovato l’oro nell’immondezzaio cittadino […] Il libro Ask the Dust e l’autore era John Fante, che avrebbe esercitato un’influenza duratura su di me […] Ho riletto Ask the Dust quest’anno, trentanove anni dopo la prima volta, e ho dovuto riconoscere che ha resistito al tempo, come tutte le altre opere di Fante. Questa, però, resta la mia preferita perché è con essa che ho scoperto la magia».

Letteratura e musica. Musica e arte. Arte e letteratura. Ce lo dice sempre Dylan in un’altra delle didascalie che accompagnano e raccontano la mostra, «Cos’è che fa di un disegno un buon disegno? Le linee giuste nei punti giusti. E di un testo un buon testo? Le parole giuste all’interno della melodia giusta».

L’arte per raccontare, l’arte per anticipare, l’arte per l’arte.

Quando arrivò, giovanissimo, a New York, lo racconta in Chronicles, volume 1, non conosceva nessuno ed era già consapevole di ciò che avrebbe fatto. Non cercava «né denaro né amore», inseguiva solo la sua strada. Quella strada che in parte è possibile ripercorrere, insieme alle sue opere, regalandosi una giornata per andare a vedere: Bob Dylan. Retrospectrum


Fino al 30 aprile 2023 è possibile documentarsi e godere della vista dei suoi quadri e delle sue sculture al MAXXI, Museo nazionale delle arti del XXI secolo, di Roma grazie alla bella mostra curata da Shai Baitel: Bob Dylan. Retrospectrum. Quadri, sculture, video e musica, in anteprima europea, ospitati nella Galleria 5.

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