Entrare in una Pubblica Amministrazione o in un’azienda a 25 anni, sempre o quasi con un contratto a tempo indeterminato e restarci fino ai 60 per poi andare in pensione. Era questo il mondo del lavoro del secolo scorso. Oggi è tutto molto diverso, non si sa quando nel mondo del lavoro un giovane riuscirà ad entrare e quando la sua esperienza lavorativa terminerà per cominciarne un’altra.
Negli ultimi anni, nonostante il difficilissimo periodo, le aziende hanno continuato ad assumere, c’è da dire, ma la forma a termine ormai prevale su quella a tempo indeterminato.
Concorrono molti fattori a determinare questa dinamica: rapidi cambiamenti del mercato del lavoro e nelle tecnologie e, quindi, adeguamenti degli organici delle aziende, abilità e competenze di lavoratori e lavoratrici a rischio obsolescenza molto più di ieri, incertezza sul futuro non solo dei lavoratori, ma pure delle imprese.
Era meglio ieri? È più stimolante oggi?
Difficile dare una risposta univoca, perché dipende da tante cose: la biografia delle persone e anche il ceto sociale della famiglia per esempio; di conseguenza, livello di istruzione e qualificazione professionale di chi è in cerca di un’occupazione; aspirazioni, attitudini e motivazioni dei giovani che vogliono entrare nel mondo del lavoro e loro determinazione a farlo; disponibilità a trasferirsi dove c’è più domanda di lavoro e tanto altro.
Certamente, una ricerca lunga ed infruttuosa può essere demotivante e anche frustrante e infatti l’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di inattivi e cioè persone, principalmente sotto i 30 anni, che né lavorano e né studiano e che il lavoro neppure lo cercano più. L’ANPAL ne conta 3.050.000 (approssimativamente 1 su 4 degli under 30). Ma spesso il problema riguarda, ormai, anche persone che hanno superato i 30 anni. Contemporaneamente, centinaia di migliaia di posti restano scoperti perché non si trovano le persone con le giuste competenze sociali e tecniche (va anche detto che talvolta questi posti di lavoro restano scoperti per le basse retribuzioni offerte ed i giovani tendono a cercare altrove, anche all’estero; è all’ordine del giorno la questione del salario minimo, ma questo è un altro tema).
In Italia è bassa la produttività del lavoro media. Coesistono imprese dove la produttività e particolarmente bassa ed imprese con una produttività molto superiore alla media. Bisognerebbe, con azioni di informazione ed orientamento, indirizzare la ricerca del lavoro verso le imprese ed i settori che tirano, che poi sono quelli a più alta produttività e che garantiscono quasi sempre retribuzioni più elevate.
Ma c’è un dato che fa riflettere; un dato se vogliamo in controtendenza rispetto a quanto detto finora, a mio giudizio incoraggiante e che testimonia la complessità dei meccanismi del mercato del lavoro e di come le persone e in modo particolare i giovani vi si approcciano.
Negli ultimi due anni il numero degli under 40 che ha deciso di cambiare lavoro è aumentato del 26%. Lavoratori e lavoratrici che non vengono licenziati per qualche motivo, ma decidono di cambiare pensando di poter avere un lavoro migliore, a quanto pare riuscendoci.
Non pare irrilevante il fatto che molto spesso non è la ricerca di una forma contrattuale più stabile a determinare la decisione di cambiare lavoro, ma la ricerca di una occupazione più coerente con le proprie ambizioni ed aspettative, compreso un migliore equilibrio fra vita privata e lavoro.
Si tratta, quasi sempre, di transizioni verso aziende o settori a più alta produttività e con stipendi e salari più gratificanti; realtà a più elevato contenuto tecnologico e con una gerarchizzazione molto relativa, dove si sperimentano modelli organizzativi più adatti alle aspettative dei giovani talenti.
Sono persone, mediamente, con una significativa qualificazione professionale, che cercano ambienti di lavoro più performanti dove potersi esprimere, preferendo autonomia e responsabilità ad opprimenti gerarchie interne.
Flavia Cappadocia e Chiara Nardinocchi, nel loro saggio Perché i giovani lasciano il posto fisso (confermando che non è sempre il contratto a tempo indeterminato il primo obiettivo) hanno pubblicato alcune testimonianze, come a titolo esemplificativo quello di una giovane donna: «pur di lavorare accettiamo di fare un lavoro che magari ci fa star male […] io dopo nove anni mi sentivo consumata ed una volta fatto questo salto mi sono detta che avrei potuto farlo prima».
Un mercato del lavoro diviso: inattivi, scoraggiati, giovani e talvolta meno giovani, che hanno serie difficoltà ad inserirsi o reinserirsi nel mondo del lavoro; ed altri che riescono invece a tracciare percorsi socio professionali in crescita.
Riunirlo è una sfida, ridisegnarlo un dovere.