Nata sugli social, si è creato da qualche anno, prima negli USA, poi nel resto del mondo occidentale democratico, una Doxa vittimistica nella quale la diversità è ridotta al colore della pelle, al genere, alla religione o all’orientamento sessuale. Vuole purificare la storia, l’arte, la letteratura, l’educazione da tutte le offese, reali o potenziali, presenti o passati, ai membri di queste comunità. Si scatenano così sui social delle guerre sante, dei tribunali senza magistrati ne competenze giuridiche, spesso anacronistiche, non sempre basati su la storiografia, che molti media scimmiottano per fare udienza, contro chi azzardi opinioni fuori dalle righe, voci ritenute dissonanti, pericolose o odiose.
Si scatenano processi sommari, creando terrore nei media contro giornalisti o vignettisti che potrebbero prendere in giro o ironizzare su temi proclamati tabù, sugli eccessi o sulla tirannia di questa nuova benevolenza. Così alcuni individui e le loro tracce vengono cancellati, per far sì che le loro parole, scritti, azioni o memoria non siano più né viste né eventualmente ammirate.
Anche se lontani dall’essere nuovi (pensiamo alla damnatio memoriae dei romani, alla distruzione delle statue dei re durante la rivoluzione francese, dei busti di Mussolini, di dittatori comunisti dopo la caduta del muro di Berlino, o dei Buddha di Bamiyan, ecc…), le cronache, da qualche anno, riportano di ripetuti episodi, nelle Americhe, nei Caraibi o in Europa, di statue e simboli, della storia recente ma anche di quella più lontana, sfregiati, abbattuti, rimossi; in cui scrittori, intellettuali, insegnanti, artisti moderni o dei tempi passati, vignettisti e giornalisti, persone dello spettacolo, e le loro opere sono censurate, ritirate dalle biblioteche, i loro nomi cancellati da palazzi pubblici; in cui professori, giornalisti o vignettisti possono essere licenziati o vedere la loro reputazione rovinata per essere stati accusati sui social o con delazioni di non essere politicamente corretti.
Il motivo per gli attivisti identitari, per questi nuovi crociati di un politicamente corretto al di fuori delle legislazioni esistenti, i woke, è che tutti i loro bersagli sono ritenuti simboli di razzismo, sessismo, misoginia, omofobia, transfobia, islamofobia, antisemitismo, imperialismo, schiavismo, colonialismo, e/o del suprematismo bianco.
Questo, ovviamente, non vuole dire che la lotta per i diritti e la dignità umana, per raccontare la storia in tutte le sue sfumature devono essere condannati o oscurati, al contrario. Ma la storia è complessa, la malvagità umana è, purtroppo, universale e atemporale, come lo può essere la benevolenza. Ma non può essere ridotta a una visione semplificate ad oltranza, limitata alla storia dell’Occidente (bianco e cristiano). Tuttavia, vari fattori possono spiegare queste crociate moderne molto occidentali.
Nel corso dei tre ultimi secoli, in Occidente, al seguito di rivoluzioni, lotte sindacali e politiche, i cittadini sono stati attori dei cambiamenti positivi della società. Tuttavia, dalla fine del bipolarismo geopolitico, l’accelerazione della globalizzazione del mondo, l’avvento di multinazionali, soprattutto legati alla finanza e al web, più potenti degli stati non solo in termini economici e finanziari, ma anche perché detengono un (quasi) monopolio dell’informazione e della formazione delle opinioni pubbliche, il cittadino medio si sente totalmente privato di qualsiasi potere sulla sua vita e su quella della sua famiglia, e gli stati non riescono ad intervenire positivamente per invertire la rotta.
In assenza di idee (e di mezzi a disposizione dei cittadini), per l’incapacità dei governi e dei partiti politici di far fronte ai problemi delle società moderne, con una sinistra benpensante che ha dimenticato cosa vuol dire la lotta di classe e attivisti rumorosi che si considerano (o sono effettivamente) discriminati e vittime, si è creata un’offerta politica centrata sui diritti identitari.
Questa impotenza degli individui genera ogni forma di follia umana, dall’ignoranza al dispetto, alla rabbia, all’odio, e questi ribollono, politicamente, nei movimenti regressivi che vediamo in tutto il mondo. Considerano che è meglio avere un certo grado di potere, secondo le vecchie gerarchie sociali di razza, casta, religione, che non averne affatto, anche se è solo il potere di odiare, trattenere, negare, abusare. Universalismo, convivialità, rispetto reciproco e tolleranza sono buttati via con l’acqua del bagno sociale.
Difendere i diritti di tutti i membri maggioritari o minoritari che sono presenti in una società è la battaglia degli umanisti, dei socialisti da sempre. Battaglie, purtroppo, senza fine e per questo devono essere proseguite senza sosta. Tuttavia, queste battaglie non si possono fare per difendere la suscettibilità o gruppi di offesi a discapito di questioni più cogenti come le disuguaglianze all’interno degli stati e tra gli stati. Ovvero il malfunzionamento delle democrazie, l’esclusione sociale, l’insufficienza dell’offerta di lavoro, l’evasione fiscale e lo strapotere degli imperi del web e delle multinazionali, l’immigrazione, la geopolitica e le battaglie tra le potenze di un mondo adesso multipolare, il lavoro e la protezione sociale, la transizione ecologica e digitale, lo sviluppo economico e culturale.
Spesso queste nuove rivendicazioni identitarie si trasformano in una nuova forma di tirannia che ne altera il significato e provoca un clima generale di intolleranza, quasi il mondo descritto da Hobbes prima dell’avvento delle società.
Condividiamo la denuncia di questi conformismi ideologici, pubblicata in una tribuna dell’Harper Magazine del 7 luglio 2020, da decine di universitari, autori, giornalisti, intellettuali americani, di tutto il spetro politico.
«Il libero scambio di informazioni e idee, che è la linfa vitale delle società liberali, sta diventando sempre più limitato. La censura, che ci si sarebbe aspettati emergesse dalla destra radicale, si sta diffondendo anche nella nostra cultura: l’intolleranza delle opinioni diverse, il gusto per l’umiliazione pubblica e l’ostracismo, la tendenza a dissolvere questioni politiche complesse in un’accecante certezza morale. Noi sosteniamo un contro-discorso robusto e anche caustico da tutte le parti.
Qualunque siano le ragioni, la conseguenza è che è sempre più difficile parlare senza paura di rappresaglie. Ne stiamo già pagando il prezzo, a giudicare dall’avversione al rischio che si sta sviluppando tra scrittori, artisti e giornalisti, inibiti dalla paura di perdere i loro mezzi di sussistenza se si discostano dal consenso, o anche se non mostrano lo zelo previsto per conformarsi.
Limitare il dibattito, sia da parte di un governo repressivo o di una società intollerante, danneggia inevitabilmente coloro che non detengono il potere e ci rende tutti meno capaci di partecipare alla vita democratica».
Parafrasando il professore e romanziere (nero) Alain Mabanckou, il fanatismo trova il suo campo di esperienza tra gli uomini della stessa origine, prima di diffondersi gradualmente ad altre minoranze o razze con una virulenza alimentata dallo spirito di vendetta.
Ma queste vendette possono risolvere i problemi di convivenza e di sviluppo delle società?
Non sarebbe più utile e importante porre le domande nel presente, cercare di risolverle e rifiutare una certa maledizione dermica o epidermica?
Le ferite storiche o psicosociali, che siano sacre o meno, devono diventare la fonte principale del discorso, e il limite assoluto nella vita?
Al contrario, ci sembra cruciale, per il futuro delle nostre democrazie che l’arte, il sapere, la storia rimangano una zona incontrollabile da parte dell’Impero del Bene… perché la benevolenza è l’altro volto dell’autoritarismo.
Non possiamo che ribadire quello che afferma la Corte europea dei diritti umani, in numerose sentenze pronunciate da 45 anni, cioè dalla sentenza Handyside contro Regno Unito del 7 dicembre 1976: «La libertà di espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica, una delle condizioni primordiali per il suo progresso e per lo sviluppo di ogni individuo. Fatta salva la riserva del paragrafo 2 (dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti umani), essa vale non soltanto per le “informazioni” o le “idee” accolte con favore o considerate inoffensive o indifferenti, ma anche per quelle che offendono, sconvolgono o inquietano: così esigono il pluralismo, la tolleranza e l’apertura mentale, senza i quali non vi è “società democratica”. Come sancisce l’articolo 10, questa libertà è soggetta a delle eccezioni, che devono tuttavia essere interpretate in maniera restrittiva, e l’esigenza di qualsiasi restrizione deve essere stabilita in modo convincente».
Per queste ragioni il Centro Librexpression/Libex della Fondazione Giuseppe Di Vagno ha deciso di dedicare il suo terzo concorso e la sesta mostra annuale di vignette satiriche al tema della Cancel Culture e del politicamente corretto, in collaborazione con l’associazione internazionale Cartooning for Peace, cartooningforpeace.org, il sito di informazione internazionale voxeurop.eu e la rivista web della fondazione pagina21.eu
Più di 170 vignettisti editorialisti provenienti da 64 paesi di tutto il mondo, amici di Librexpression e di Cartooning for Peace, sono stati scelti e invitati a partecipare al concorso.
La giuria internazionale è composta di 4 vignettisti multipremiati: Marlene Pohle (Argentina), Marilena Nardi (Italia), Z (Tunisia), Joep Bertrams (Paesi Bassi); di 2 giornalisti: GianPaolo Accardo, direttore di Voxeurop e Oscar Buonamano, direttore di Pagina21. Ed è presieduta dal direttore di Librexpression, Thierry Vissol.
La giuria selezionerà 55 vignette che saranno esposte a Conversano (Bari) in occasione della XVII° edizione del Festival LectorInFabula e pubblicate in un catalogo cartaceo. Poi, sceglierà le 3 vignette che saranno premiate a Conversano, il 25 settembre 2021, durante il Festival e, infine, le dieci ad essere pubblicate sotto forma di cartoline.
Le prime mostre di Libex sono state dedicate alle Sfide dell’Europa (2016), alle Rivoluzioni e post-rivoluzioni (2017), al Lunapocene (2019).
I due primi concorsi/mostre avevano per tema: L’era digitale (2018) e Libertà di espressione e censura (2020). I premiati sono stati scelti da giurie internazionali prestigiose. Nel 2018, sono stati premiati: Nikola Listes (Croazia), Emanuele del Rosso (Italia) e Fadi Abou Hassan – Fadi Toon (Norvegia/Palestina). Invece i tre premiati del 2020 sono stati: Marilena Nardi (Italia), Agim Sulaj (Albania) e Joep Bertrams (Paesi Bassi).
A tutti i candidati dell’edizione Libex2021, buona fortuna.
La vignetta che accompagna l’articolo è di Arend Van Dam.