Il post della influencer Chiara Ferragni critico verso Giorgia Meloni per la politica restrittiva sull’aborto nelle Marche ha fatto irruzione nel dibattito pubblico ed è stato subito al centro delle analisi di comunicatori, giornalisti, politici. Di colpo l’attenzione si è spostata sul derby tra la giornalista e la leader: Chiara Ferragni, con oltre 20 milioni di follower e non nuova a uscite pubbliche; Giorgia Meloni, possibile prima donna premier a Palazzo Chigi se il centrodestra vincerà le elezioni.
La discussione si è incanalata soprattutto su due versanti: quanti voti può spostare la Ferragni e quanto l’influencer sia stata più efficace nella comunicazione del principale competitor della Meloni, il segretario del Pd Enrico Letta.
Ma il vero valore del post della Ferragni forse andrebbe ricercato altrove: l’influencer, per quanto influente, difficilmente sposterà molti voti; i dubbi sulla campagna comunicativa di Letta erano già emersi, al massimo sono apparsi più evidenti. Né vale concentrarsi troppo sul fatto che quel post alla fine consolida il brand Ferragni-Fedez. Il possibile frame interpretativo potrebbe essere differente: il confronto tra le diverse linee comunicative delle due donne evoca identità, immaginari, mondi possibili alternativi che possono, questi sì, influenzare la campagna elettorale.
Chiara Ferragni ha compiuto un’operazione semplice, che non è venuta in mente neppure alle donne candidate nel centrosinistra. È andata a vedere cosa sta succedendo per l’aborto nella Marche, regione oggi amministrata da Fratelli d’Italia. L’influencer ha scoperto che una interpretazione restrittiva della legge, soprattutto per la gestione della pillola del giorno dopo, sta di fatto comprimendo il diritto alla libera scelta delle donne di interrompere la gravidanza. E l’ha denunciato. Molte marchigiane per ottenere la pillola devono andare in Emilia Romagna o in altre regioni. Per essere più convincente la Ferragni ha indossato una maglietta nera con sopra la scritta: «Dovremmo essere tutte femministe».
L’influencer ha compiuto una mossa comunicativa audace: ha condotto la sfida sullo stesso terreno della Meloni, quello della rappresentazione di un Sé politico che diventa teatralizzazione della politica, vale a dire spettacolo. Come spiegava Goffman, gli attori sociali «si muovono in uno spazio scenico diviso tra ribalta e retroscena. La posta in gioco è il successo nella presentazione di sé stessi». Le due donne sono diventate così le protagoniste di un conflitto narrativo e rappresentativo.
Il vero effetto del post della Ferragni è stato squarciare il velo sul processo di normalizzazione che la leader di Fratelli d’Italia cuciva su sè stessa e sul suo partito in vista di un possibile ingresso a Palazzo Chigi.
La Meloni, infatti, ha bruciato tutti sullo scatto in una campagna elettorale che sembra una corsa: un grande manifesto, ripreso sui social e sui media, annunciava con una sola parola: «Pronti» accanto all’immagine della leader. A molti è subito venuto in mente il discorso finale di Draghi in cui il premier ha chiesto ai partiti: «Siete pronti?» sottintendendo a difendere l’interesse dell’Italia? Lei ha replicato: siamo pronti. Una risposta che implicitamente ha anticipato la campagna di normalizzazione di Fratelli d’Italia, un partito che è sempre stato all’opposizione, anche se alcuni suoi esponenti provengono da An, Forza Italia, Lega, partiti che hanno governato, ed è circondato da molte diffidenze all’estero.
La recente comunicazione della Meloni sembra infatti voler rassicurare sul fatto che lei è in grado di assumere l’incarico e le responsabilità connesse, che lo farà tenendo conto della complessità della situazione politica internazionale e nazionale, forse senza strappi traumatici, ma fedele ai suoi principi e valori. Solo in occasione del video della giovane ucraina violentata da un richiedente asilo, la Meloni ha mostrato una certa aggressività, rifiutando di scusarsi per avere utilizzato una vittima, una donna, per la propria propaganda. In genere la Meloni sembra consapevole che i punti deboli della sua candidatura a Palazzo Chigi sono la sua lunga marginalizzazione nello spazio politico, una cultura di governo tutta da costruire che i mercati giudicano con timore, le relazioni internazionali sospette.
Eppure, con abilità è riuscita in parte a mascherarli e ha diffuso un’immagine di sé (e di conseguenza del suo partito) tranquilla, persino moderata, di una normalità nuova ma sempre normalità. Avversari, giornali hanno tentato di ricordare le sue radici postfasciste, gli imbarazzanti legami con la destra estrema di esponenti della sua formazione, la simbologia inquietante come la fiamma (che richiama il Msi), senza però ottenere un palpabile successo se non in quella parte dell’opinione pubblica già convinta e mobilitata.
Chiara Ferragni è intervenuta sulla costruzione della storia su sè stessa da parte della Meloni e ha infranto l’incantesimo normalizzante: ha fatto vedere come nella Marche i diritti delle donne siano ostacolati, resi difficili da esigere, e le donne non siano davvero libere di scegliere. E come questa condizione in cui i diritti si riducono possa estendersi a tutto il Paese. Allo spettacolo della Meloni normale, Ferragni ha contrapposto lo spettacolo di una Meloni ancora non normale.
Dietro il volto pulito e rassicurante della leader di Fratelli d’Italia si nasconde, quindi, una realtà differente. È stato come nella dinamica narrativa di alcuni racconti: l’eroe scopre che la strega, che sembra bella e incantatrice, in verità sia malvagia. La forza del post sta nel fatto che a rompere l’incantesimo non è stato, secondo il canone narrativo classico, un eroe maschile, ma una eroina, altrettanto rassicurante con il suo volto di giovane donna di successo. E soprattutto l’influencer ha sottolineato, con un uso sapiente della sua immagine, che non agisce per sé, ma in nome di tutte le donne.
Ha lanciato un segnale soprattutto alle sue giovani follower: non per me ma per voi. Questa narrazione trasversale, plurale, che tende a coinvolgere anche le donne non progressiste, rafforza il messaggio. «Dovremmo essere tutte femministe», tutte anche la Meloni. Ma lei non lo è, suggerisce la Ferragni.
Il post, quindi, ha inferto un danno all’immagine di «una di noi»” costruita con pazienza dalla Meloni e potrebbe condizionare il dibattito pubblico. L’influencer ha applicato alla leader la stessa retorica discorsiva che i populisti usano contro gli avversari: il noi che l’influencer rappresenta è il noi delle donne, mentre Giorgia viene arruolata nel loro dei politici, che pensano solo al potere. Un rovesciamento delle parti in copione che potrebbe rafforzare tra i giovani un mainstream critico verso la Meloni.
Potrebbe se nel centrosinistra, e in particolare nel Pd, ci fosse la capacità di adeguare linea politica e comunicazione. Ma così non sembra.
Né il Pd sembra cogliere, almeno per ora, l’indicazione implicita nella strategia della influencer: mobilitare il proprio elettorato è necessario, ma nelle condizioni attuali il centro-sinistra sembra minoritario e dovrebbe parlare a un’opinione pubblica più ampia. Potrebbe cioè tentare di ridurre l’effetto di inerzia elettorale (il peso delle scelte di voto passate che incidono sulla prossima) che rende poco permeabile il confine tra le coalizioni, ma non dentro le coalizioni. Il campo progressista ha difficoltà a raggiungere ed emozionare una platea più vasta.
Il post della Ferragni ha segnato così una piccola svolta nel discorso pubblico non tanto perché potrebbe spostare voti, ma perché ha saputo compiere una ridefinizione della realtà. La influencer ha svolto, in modo non tradizionale, il classico lavoro del giornalismo: selezione delle notizie, loro gerarchizzazione, inquadramento in un frame interpretativo. E lo ha fatto attraverso un canale social, confermando che il baricentro del discorso pubblico si è spostato sui social network da quotidiani e settimanali che faticano a fare il proprio lavoro in un nuovo scenario comunicativo.
La Ferragni ha usato il suo brand personale per aggirare il sovraccarico informativo che preme sugli utenti. Con una campagna elettorale in corso d’estate, i cittadini dovrebbero affrontare un faticoso lavoro di negoziazione con le molte informazioni diffuse. L’influencer, proponendosi come una sorta di scorciatoia cognitiva, ha fatto ciò che avrebbero dovuto fare i media e probabilmente i partiti di centrosinistra: andare a vedere come la destra sta governando le regioni in cui ha vinto le amministrative per capire se il mondo di promesse e di desideri che alimenta viene davvero realizzato.
Il post di esordio della Meloni, quel «Pronti», è stato efficace perché ha spostato l’ordine delle priorità del dibattito pubblico. Non si è parlato di soluzioni. Non ci sono state proposte credibili. Non è stata mostrata la prova di una effettiva affidabilità di governo acquisita da Fratelli d’Italia. Ha scavalcato i dubbi affermando che la leader è capace di guidare il Paese. Inoltre, la risposta indiretta a Draghi mette sotto silenzio il fatto che la Meloni, a differenza del Pd o di Calenda e Renzi, ha quasi sempre votato contro Draghi, non è una sua interlocutrice, ma una sua oppositrice.
Enrico Letta ha deciso di sfidare la destra sulla linea di uno scontro tra due mondi polarizzati: quello con Putin e quello contro Putin, chiedendo all’ elettore di decidere («Scegli») in una parziale dialettica con i cittadini. Ha però accettato di scendere sul terreno dell’avversaria, inseguendola nella drammatizzazione delle divisioni, nella costruzione del nemico, nelle semplificazioni.
In genere semplificazioni, divisioni, nemici hanno premiato la destra. Si tratta di un approccio da nuova guerra fredda, che ricorda i toni e la posta del 1948. C’è più di un dubbio che sia questo il clima d’opinione del Paese, preoccupato forse più per il prezzo del gas e dell’energia, per l’inflazione, per le ricadute sull’economia. A Letta potrebbe non riuscire la ridefinizione della realtà che invece ha messo a segno l’influencer.
La Ferragni ha applicato una logica opposta, femminile: non ha criticato la Meloni sul piano ideologico, ma l’ha trascinata sul piano dell’esperienza della vita quotidiana in cui le persone meglio si identificano. Ha creato uno spazio comune di percezione che riguarda tutte le donne e i problemi che devono affrontare sul lavoro, a casa, nella vita. La Ferragni cioè si è appropriata di quella maggioranza silenziosa che di solito è la destra che riesce a evocare contro gli avversari. La Meloni sembra richiamare l’idea di una democrazia identitaria, secondo la definizione che ne diede Carl Schmitt, cioè di una identificazione tra chi guida e chi viene guidato. Lei parla poco finora, ma quando lo fa riesce a dirigere il dibattito pubblico, come se fosse già premier. Vuole creare l’illusione di elezioni che sono solo l’acclamazione di un vincitore già dato: lei. La Ferragni ha infranto questo specchio. E ha contrapposto alla democrazia identitaria la democrazia del quotidiano delle donne vissuto con problemi che la Meloni non risolve e anzi causa.
In questo modo la influencer ha lesionato il processo pubblico di legittimazione che la Meloni tenta di costruire contro alleati e avversari. Giorgia non è maggioranza, suggerisce l’influencer, perché le donne vogliono essere libere di scegliere e lei non garantisce questo diritto. Il governo virtuale della Meloni, che aleggia sulla Repubblica, non è affatto un governo, ma per ora una costruzione mediatica gonfiata dai sondaggi. La messa in scena della leader viene così guastata: se (non a caso) la candidata della destra ha focalizzato l’attenzione dell’audience su sé stessa, mettendo in ombra i contenuti, la Ferragni ha invertito la relazione e ha posto il contenuto davanti alla leader. E il contenuto può dare molti dispiaceri.
Presi in contropiede, Letta e il centrosinistra ancora non sembrano capaci di imbastire una campagna elettorale efficace contro le «realtà parallele» suscitate dalla narrazione del centrodestra (meno tasse, più soldi per i pensionati, meno Iva, più alberi etc. etc.). I cittadini sono spinti dalla destra a credere che è possibile disegnare il mondo come piacerebbe a loro. La Ferragni ha mostrato che la «realtà parallela» può frantumarsi nella collisione con la realtà vera. Ma la realtà bisogna saperla rappresentare e raccontare.