«La meravigliosa peste / Che libera barbarie all’aria / Che libera il tremendo dentro / Dentro ognuno ad uno ad uno / La peste virale che libera e fa uguali / Che libera e fa uguali» canta Vinicio Capossela.
Già, la peste, paura atavica eppure così moderna, se non post-moderna. Spaventa perché viaggia e si riproduce proprio grazie al nostro essere sociali, cioè umani. Vive di contagio, ci spinge a temere il prossimo. Quella paura di manzoniana memoria sembra essersi materializzata, nelle nostre strade, negli uffici, nelle case, con il volto nuovo del Covid-19. Un volto che sembra presentarsi con il ghigno del paradosso: cammina con le nostre gambe il virus, si serve di noi, per spostarsi e non conosce confini, non ha passaporto, ci identifica tutti quanti come umani e come tali ci colpisce. Allo stesso tempo, però, i confini li genera, o meglio, li fa costruire a noi.
Proprio quel nemico, che dovrebbe farci sentire appartenenti a una umanità comune, ha ravvivato il focolaio delle politiche nazionaliste e sovraniste, si sono ricostruite barriere di egoismo, per non dire di sciacallaggio tra diversi Stati (vedi la concorrenza per acquisire materiale sanitario) per cui ciascuno tende a difendere i propri cittadini, anche a scapito degli altri.
All’inizio il confine ha rinchiuso gli 11 milioni di cittadini di Wuhan all’interno della loro città. Un confine armato, non solo normativo, con i carri armati schierati alle periferie. Sembrava un fatto lontano, relegato alla Cina, anzi a una sua provincia, poi pochi mesi dopo è toccato all’Italia a essere confinata dagli altri. L’avere denunciato per primi e con maggior solerzia di altri Paesi la presenza di casi positivi a questo virus, ha fatto sì che venissimo subito spostati dalla lavagna dei buoni a quella dei cattivi. Noi, cittadini di uno dei Paesi del G8 tra i fondatori dell’Unione Europea, culla della civiltà, trattati come migranti qualunque, portatori di infezione. Vedersi respingere alle frontiere, isolati, guardati con sospetto come appestati di manzoniana memoria è stato un fatto inatteso. Neppure il solito tentativo di attribuire a chi arrivava con i barconi la colpa del contagio ha funzionato.
Si è immediatamente scatenata l’ira verso gli italiani, tranne poi rivedere al ribasso le accuse, quando i contagiati hanno cominciato a palesarsi anche in altri Paesi. Abbiamo sempre bisogno di un nemico per definirci, ma in questo caso non è stato il virus il primo nemico individuato: il nemico è il contagiato, la vittima. Ed è una vittima con un passaporto, più facile da identificare. Ecco così, che quella vittima diventa immediatamente l’Altro da noi. Noi sani, noi puliti, noi robusti. Fino a quando non capita che il virus passi la frontiera.
Successivamente, passati alcuni mesi, quando ci si avvia faticosamente a una ripresa della normalità, ecco che nuovi confini, dettati dalla paura e dal pregiudizio, vengono nuovamente eretti: la Grecia non vuole turisti italiani, ma neppure la Sardegna vorrebbe i milanesi e l’elenco è in quotidiana evoluzione. Non sarà semplice, né rapida la scomparsa della diffidenza verso l’altro suscitata da questa paura del contagio. Quando, riusciremo a ritornare a una visione meno schematica ed escludente dell’altro? E soprattutto, quando smetteremo di costruire l’altro?
La paura della pandemia ha fatto sì che nascessero altri confini, tra di noi. L’isolamento nelle nostre case e imposizione di una distanza minima di sicurezza, l’impedimento del contatto fisico hanno segnato ulteriori solchi tra gli individui. In particolare per noi popoli mediterranei, maggiormente avvezzi rispetto ai nordici, all’abbraccio e alla prossimità fisica. Il virus ha imposto una nuova prossemica, fondata sulla paura dell’altro. Lo spazio sociale, quello che segna la qualità del rapporto tra due individuo, si è dilatato, il ché comporta un cambiamento di linguaggio e di senso della relazione. Lo spazio, infatti, è una forma di linguaggio silenzioso, come lo ha definito Edward T. Hall, infatti a una determinata distanza sociale, cioè al tipo di rapporto che intercorre tra due o più individui, corrisponde una determinata distanza fisica. A tale proposito Hall ha individuato quattro tipi di distanza: la distanza intima (0-45 cm) a cui ci si abbraccia, ci si tocca e si parla sottovoce, appunto quella degli innamorati; la distanza personale (45-120 cm) che caratterizza l’interazione tra amici stretti; la distanza sociale (1,2-3,5 metri) che determina la comunicazione tra conoscenti e infine la distanza pubblica (oltre i 3,5 metri) utilizzata nelle pubbliche relazioni.
Possiamo anche prendere con una certa cautela queste misurazione, ma di certo possiamo vedere come le distanze che si sono create in seguito alla paura del contagio, sono più simili a quelle tra estranei o semmai conoscenti senza troppa confidenza. Quanto resterà di questa esperienza alla fine dell’emergenza? La paura del contatto riconfigurerà il nostro modello di rapportarci?
Un confine ha segnato anche la percezione sociale differenza tra giovani e anziani. Nel momento di picco dei contagi si è paventata una situazione drammatica. Nell’evenienza di avere più contagiati di posti di terapia intensiva disponibili, i medici si sarebbero trovati di fronte a un dubbio atroce: chi salvare? Colin Turnbull, antropologo britannico che studiò tra gli Ik dell’Uganda, descrive la condizione di estrema povertà in cui questa popolazione si è venuta a trovare a causa dell’espansione coloniale. Una situazione di sopravvivenza che aveva causato un forte degrado dei rapporti sociali, al punto che molti bambini e anziani venivano lasciati morire di fame. In un caso drammatico come questo si impone una scelta altrettanto drammatica: chi deve sopravvivere? I giovani, è questa a risposta più razionale se si vuole dare futuro alla comunità, ma non è semplice essere razionali quando si tratta di vite umane. Non a casa la dedica posta da Turnbull all’inizio del libro recita: «Agli Ik, che ho imparato a non odiare».
Per fortuna non siamo arrivati a questi estremi, ma in un certo momento questo orizzonte si è rivelato possibile e avrebbe imposto il tracciamento di un nuovo confine, la creazione di un nuovo Altro, quello per cui sopravvivere non è più un diritto garantito.
Anche il confine storico-culturale e spesso folkloristico, che divide l’Italia tra nord e sud, ha subito una trasformazione. Il virus ha come ri-bilanciato lo squilibrio esistente tra le due metà d’Italia: il meridione, solitamente oggetto di accuse di inefficienza e disorganizzazione è risultato assai meno colpito dell’efficiente Nord.
Cosa sarebbe accaduto, se le posizioni fossero state invertite?