Conserviamo la bellezza dei giochi olimpici negli occhi e nel cuore

Darwin Pastorin

Scendo felice di casa per andare a prendere i quotidiani e fare colazione al bar. Il quartiere Santa Rita di Torino è ancora pieno di gente, soprattutto al colorato mercato di corso Sebastopoli. Passata la chiesa di Santa Rita, mi imbatto in un conoscente, appassionato di calcio e, immagino, catturato come me dalla meraviglia delle Olimpiadi di Parigi, quelle quaranta medaglie che hanno illustrato il carattere e la forza e l’orgoglio del nostro Paese. Ci salutiamo e gli chiedo, contento: «Ma hai visto le nostre ragazze del volley?». Lui fa una leggera smorfia e mi dice: «Sì, ho letto… Ma, piuttosto, che combina questa Juve? Ha perso in amichevole anche contro l’Atletico Madrid…».

Ho fretta di andare via: «Non ne ho la minima idea. Ti saluto». Lo sento mormorare, in lontananza: «Manca un centravanti, ecco cosa manca…».

Il brusco ritorno alla normalità. Finiti i giorni del sogno, delle utopie realizzate, del tifo per il ciclismo su pista Madison e del tiro a volo Trap, ritorna a imperare il dio laico del pallone, con le prima partite, la gran cassa del mercato, gol fatti e gol mancati.

Un caso direte voi? No. Siamo alle solite. Anche se, come abbiamo scritto, sport come tennis, pallavolo e atletica leggera, grazie ai Giochi, si stanno facendo sempre più spazio tra le ragazze e i ragazzi. Ma i boomer si sono già rituffati negli schemi di Conte, nei dubbi di Simone Inzaghi, negli esperimenti di Thiago Motta, nelle invenzioni tattiche di Fonseca e De Rossi.

Ma io ho ancora addosso le Olimpiadi.

Compresa la cerimonia finale, che ha stracciato quella di apertura. Bello vedere gli atleti delle varie nazionali tutti insieme, farsi i selfie, sventolare le bandiere, abbracciarsi. Un momento di bellezza e di tenerezza e di allegria: ma, subito, non potevi pensare che, fuori da quello stadio di tutti gli incantesimi possibili e impossibili, continuano a morire  centinaia e centinaia di bambini, le guerre stanno cancellando, come durante le stagioni nere delle dittature sudamericane, generazioni di giovani, pazzi al governo minacciamo di utilizzare la bomba atomica, il mare è di nuovo un cimitero di illusione o disperazione.

Lì, però, allo Stade de France, come una benedizione, una colomba lanciata in cielo, abbiamo visto sfilare parte della meglio, e, certo, anche fortunata, gioventù. Campioni che ci hanno regalato giorni e giorni di prodezze e stupori.

Ed è bella, come in un romanzo d’appendice la storia del paesino di Roncadelle, in provincia di Brescia, che ha portato sul podio tre ori: Anna Danesi (capitana della pallavolo femminile), Alice Bellandi (judo) e Giovanni De Gennaro (canoa).

In passato, nel calcio, abbiamo avuto il «paese dove si nasce liberi», ovvero Cernusco sul Naviglio, in provincia di Milano, che ha dato i natali a tre difensori centrali, nel ruolo di libero: Gaetano Scirea (Juventus, mondiale nel 1982), Roberto Tricella (Verona, nazionale azzurro) e Roberto Galbiati (Torino).

Tra poco, via alle Paralimpiadi, dal 28 agosto all’8 settembre. Con le nostre atlete e i nostri atleti pronti a regalarci tante, ma davvero tante altre soddisfazioni.

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