L’8 febbraio 2022 alla Camera dei Deputati è stato approvato il disegno di legge che riforma la Costituzione con l’introduzione della tutela dell’ambiente e della biodiversità fra i principi fondamentali. Si è trattato di un momento significativo per la storia del nostro Paese che, senza eccessivi clamori mediatici, ha visto la modifica di ben due articoli della legge fondamentale dello Stato, il 9 e il 41.
Con la nuova formulazione del primo, la Repubblica assume nuovi compiti e responsabilità non solo nei confronti degli equilibri ecosistemici ma anche verso le generazioni future. Nel secondo articolo, da ora in poi, nell’ambito dei diritti e di doveri dei cittadini si dovrà tener conto che la libertà (economica) non potrà andare in contrasto con la conservazione dell’ambiente.
Il ritardo con cui le sedi istituzionali italiane hanno recepito il dibattito pubblico e scientifico internazionale appare abbastanza scontato se si considerano i termini con cui la nostra classe dirigente ha affrontato in questi anni la questione ecologica. L’approccio di fondo appare sostanzialmente poco innovativo, a tratti finanche conservatore, nonostante i moderati entusiasmi manifestati da alcune forze partitiche progressiste. Alla proposta di modifica costituzionale si è arrivati conciliando le posizioni più guardinghe di coloro che avevano il mandato di rappresentare le associazioni venatorie, con quelle più ambiziose di coloro che prefiguravano una società basata sulla mobilità sostenibile e edifici eco-smart.
Possiamo affermare che l’orizzonte di senso che ha ospitato il confronto e prodotto l’innovazione normativa rimane quello consueto dell’antropocentrismo moderno. In altre parole, la natura viene messa in sicurezza secondo procedure che riconducono – e riducono – al potere della norma e alla condotta regolamentata dei cittadini la sua tutela. Saranno, quindi, le istituzioni e i buoni comportamenti individuali a rispondere a quelle aspettative di portata epocale espresse dai movimenti giovanili che negli ultimi anni hanno preteso ad alta voce un cambio di rotta. L’impressione è che il tema dell’urgenza della giustizia intergenerazionale rilanciato durante gli scioperi per il clima e che le istanze rappresentate nelle manifestazioni contro un destino di estinzione di massa rimarranno ancora sullo sfondo della agenda politica.
La portata della modifica costituzionale appare contenuta soprattutto se si considerano le conseguenze in termini di visione politica del modello di vita collettiva e di sviluppo. Appare opportuno ricordare che la questione ecologica è una questione innanzitutto politica, di ecologia politica appunto, e non di mera politica ecologica, ovvero di regolazione di quell’altro da noi che chiamiamo natura. Lo ricordiamo perché appare ancora troppo radicata l’idea che una natura regolata, confinata e normalizzata possa bastare a disegnare uno spazio di sopravvivenza duraturo per le nostre società.
La filosofa Isabelle Stengers, insieme ad altrə, ci ha spesso ricordato quanto illusoria sia questa convinzione. A Gaia non importa né la regolazione normativa e neppure quella socio-economica. La sua intrusione disordinata nelle nostre vite ordinate ci costringe a ridefinire il senso stesso del rapporto con quello che non è umano, a ripensare la distinzione fra soggetto e oggetto, anche quando parliamo di diritto e Costituzione. Gaia non è confinabile nello spazio angusto di un oggetto di diritto, ma agisce come soggetto, perdipiù senza aderire ai decaloghi delle buone maniere della cittadinanza.
Alcuni paesi dell’America Latina, meno vincolati ad un immaginario antropo-deterministico e sviluppista, hanno riconosciuto nelle loro costituzioni la soggettività della Natura come indissolubilmente legata a quella delle comunità che vivono i territori. La regola, la norma fondamentale, in questi casi riguarda il rapporto di equilibrio a garanzia del buen vivir.
Ovviamente al di qua dell’oceano appare del tutto irrealistico aspettarsi rivoluzioni copernicane che rifondino l’ontologia stessa della nostra vita associata. Tuttavia, sarà importante ribadire, sempre con più forza, che non siamo sufficienti a noi stessi, che l’ideologia prometeica che rimanda alla salvezza tecnologica non sarà sufficiente a disciplinare Gaia, e che forse neppure la via socialista della critica all’Antropocene, o più correttamente al Capitalocene, potrà molto rispetto alle forze in gioco. I segni di questa inadeguatezza si possono rintracciare nella storia passata e presente dei disastri e degli squilibri territoriali del nostro Paese.
La vicenda siderurgica di Taranto appare ormai fissata in un tempo sospeso, come un monito immobile rispetto alla retorica della conciliazione fra natura e società, fra vita ed economia. A quella terra si sono dedicate risorse materiali ed intellettuali, adattamenti tecnologici e rappresentazioni discorsive, per prefigurare uno scenario che fosse auspicabile e legittimo. Ad oggi quello scenario, purtroppo, non si è ancora realizzato. Intanto quel monito immobile resta, a ricordarci che il futuro sostenibile non può essere fatto cambiando l’ordine di quegli stessi fattori che danno forma al modello che si vuole sostituire. La necessità di una radicale decolonizzazione dell’immaginario, dunque, rimane, e si pone a livello di visione politica del futuro. Certamente per rifondare il nostro immaginario non possiamo affidarci ad un’adesione di massa verso un animismo di ritorno, ancora meno se esoterico e d’importazione. Ma dobbiamo ammettere il limite del potere nomico che deriva delle formalizzazioni normative, soprattutto quando queste non si traducono sul piano della vita quotidiana, delle pratiche sociali condivise, del cambiamento strutturale.
Con la riforma costituzionale, soprattutto nella parte che interviene sui principi fondamentali, abbiamo fatto un piccolo passo. Un passo che potrà anche dare vita ad un percorso nuovo, sempre che non si continuino a confondere i mezzi (l’innovazione tecnologica e normativa, la governance e l’amministrazione, la rendicontazione ambientale) con i fini (la sopravvivenza di una società equa e solidale).
Bisognerà sperare che le nuove generazioni di studentə, a quanto pare sottoposte ad una inaudita insistenza sulla lezione delle guerre Puniche, imparino che anche la tecnologia più innovativa e formidabile, come lo furono le macchine d’assedio, hanno bisogno di un obiettivo morale, politico da perseguire.