Per primo arrivò l’Urlo del pittore norvegese Edvard Munch: un dipinto a indicarci, con lacerante forza, il senso della tragedia, della disperazione e dell’orrore dell’esistenza. A farmi conoscere quell’opera fu l’insegnante di educazione artistica alle scuole medie. Poi, al liceo, durante le stagioni di lotta e liberazione, di sogni di rivoluzioni e di amori, giunse tra le mie mani il secondo Urlo, del poeta della beat generation Allen Ginsberg, letto per la prima volta sessantanove anni fa alla Six Gallery di San Francisco, con quell’incipit che imparai a memoria: «Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, andare per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa».
a il terzo Urlo rappresentò (con i gol di Paolo Rossi, di una nazionale azzurra guidata da Enzo Bearzot, il nostro Don Chisciotte, il vanto di una nazione rappresentata dal presidente partigiano Sandro Pertini) il manifesto di una splendida ed esemplare storia italiana, di un gruppo di giocatori passato dal buio al miele, dall’insulto alla gloria: quell’esultanza senza fine di Marco Tardelli, dopo la sua rete nella finale di Madrid al Mundial di Spagna del 1982, la seconda dell’Italia nel 3-1 alla Germania Ovest. La sua gioia sfrenata, con i compagni che tentavano inutilmente di fermarlo, con Gabriele Romagnoli, in un bellissimo racconto, che immaginò il campione non fermarsi mai, e io che ero lì, giovane inviato di Tuttosport, in quella notte da realismo magico dell’11 luglio, ad ammirare quel mio amico, perché a quel tempo eravamo davvero amici, oggi ci rispettiamo e ci vogliamo bene, passato, in un lampo, dalla cronaca alla storia. Perché quel suo Urlo, sintesi perfetta dell’arte e della poesia, diventò l’indelebile poster della nostra avventura omerica. Un’immagine che viene ripetuta in occasione di programmi calcistici, docufilm su quella memoria, nei racconti sul declinare dell’estate in cortili o in cascine, proprio come si usava un tempo, quando la parola dominava su tutto: quel gesto non conoscerà mai l’usura o la dimenticanza.
Oggi Marco Tardelli compie 70 anni. Portati con quel suo sorriso ironico, con forse maggiore dolcezza rispetto al passato, grazie all’amore con la sua Myrta Merlino, volto di Pomeriggio Cinque su Canale 5; all’essere sempre stato, fin da ragazzo, curioso, intelligente, come tutti i toscani senza reticenze o maschere: con lui non poteva esistere la menzogna o la finta cortesia. Non nascondeva mai, con nessuno, il suo umore, soprattutto quando era pessimo. 70 anni a testa alta, uno dei figli prediletti di Bearzot, che, durante la Coppa spagnola, per la sua insonnia prima delle partite, lo soprannominò coyote. Lo vediamo spesso in tv, commentare le partite, far confessare gli assi del calcio: e senza mai usare una frase fatta, senza scivolare nella banalità.
In una recente intervista ad Aldo Cazzullo ha elogiato lo scrittore (mio maestro di letteratura) Giovanni Arpino. Tommaso, il figlio de l’autore di La Suora Giovane, il romanzo amato da Marco, uscito, la prima volta, nel 1959 ed elogiato da Eugenio Montale, mi ha telefonato dopo quell’articolo: «Mi sono profondamente commosso. Vorrei ringraziarlo, puoi darmi il suo numero di cellulare, per favore?».
È stato un fuoriclasse sul prato verde e una persona vera, sempre. E mi emoziona, ogni volta, vedere la foto sul suo profilo Whatsapp: lui con Pablito, compagni amici fratelli. Tanti auguri, Marco Tardelli. Quel tuo Urlo è stato felicità, rabbia, riscatto, amore, bellezza. C’era la tua anima, in quell’Urlo.